Harry Caul (Gene Hackman) è un investigatore privato, esperto in intercettazioni e tecniche di sorveglianza e spionaggio, guardato dai colleghi come un asso della categoria. Caul è anche un uomo solo, un fervente cattolico, ossessionato dalla propria privacy e affetto da problemi di sociopatia. La sua unica passione al di là del lavoro sembra essere il sassofono.
Il film è dunque, almeno in parte, un desolante ritratto dell’uomo nel contesto urbano contemporaneo, afflitto da isolamento, solitudine, aridità e tendenze paranoidi. Ritratto ispirato, come rivelato da Coppola, al malinconico romanzo “Il Lupo della Steppa” di Hermann Hesse.
La narrazione ruota intorno a una conversazione registrata da Caul su commissione di un cliente, e che pone un serio interrogativo etico per il piantone in quanto la consegna del nastro potrebbe condurre a un efferato omicidio. Si palesa così un secondo ovvio riferimento, questa volta cinematografico, il Blow-Up di Antonioni.
Accompagnata dal magnifico tema jazz di David Shire, l’indagine abbandona a tratti il ritratto psicologico e il dilemma morale, trasformandosi in arguto discorso sociologico sul ruolo e l’impatto della tecnologia sulle nostre vite, pervaso da echi orwelliani e suggestioni (forse) heideggeriane laddove insinua che la relativa padronanza di una qualsiasi tecnologia equivale in realtà a un’assoluta dipendenza.
Oltre all’eccellente interpretazione di Gene Hackman (forse il miglior attore americano del decennio ’70), si segnalano un giovanissimo e sbarbato Harrison Ford e il gustoso piano sequenza iniziale, che varrebbe da solo il prezzo del biglietto.
★★★★☆