Uomo muore in strane circostanze, detective indaga la vedova, non è stata lei. La vedova si risposa, il marito ri-muore, il detective ri-indaga. Forse era stata lei. Mistery romance hitchcockiano tra un’immigrata cinese e un poliziotto coreano caduti in una spirale di passione e violenza.
Il paesaggio è più di un semplice sfondo, giocato su un’estetica (shanshui 山水), in cinese “paesaggio”, in senso letterale “monti 山e acque 水”; ma anche lui e lei, maschile e femminile, senso di colpa e desiderio, fermezza morale e ondate di passione.
Svariati virtuosismi in sede di regia, fra soggettive ansiogene e primi piani catturati attraverso lo schermo del telefono.
“Mai visto un tale vortice di cattivo gusto e pura magia”. La recensione Chazelle se la fa da solo, affidandola a una battuta di Margot Robbie, ed è anche abbastanza centrata.
Sequenze di grande cinema la festa in apertura, le riprese del kolossal medievale, la discesa nei budelli losangelini con un Tobey Maguire repellente. Il cattivo gusto invece non sta solo nell’umorismo scatologico – elefanti che svuotano le viscere sui galoppini, attrici che urinano, si ingozzano, vomitano – quanto nel perseguimento consapevole di una “poetica dell’eccesso e dell’incontinenza” (Gandini, Cineforum) che si estende a una ricostruzione patinata e platealmente fasulla, disinteressata al recupero realistico di arredi, acconciature, scenografie…
Insomma un postmoderno al quadrato, che in vari punti si esprime con il linguaggio frammentario e accelerato dei videoclip. Chazelle, di formazione musicista, ama far trainare il racconto dalla colonna sonora, innescando l’azione in J-cut e tenendola viva e vibrante attraverso un montaggio sincopato che raggiunge il suo acme nel pirotecnico finale, un’esibizione (auto)compiaciuta di estro compositivo e cultura cinefila.
Sopra Caligola, sotto Babylon
Questa cultura cinefila, oltre alla fonte d’ispirazione Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, saccheggia tanti, troppi film per elencarli tutti, ma vale la pena menzionarne alcuni: i personaggi di C’era una volta a Hollywood (Tarantino), le scenografie di Caligola (Brass) e I vitelloni (Fellini), le tracking shots di Paul Thomas Anderson, i piani sequenza di Quei bravi ragazzi (Scorsese) e le icone di Singin’ in the Rain (Kelly-Donen), innestandosi in quel filone epico dedicato agli anni d’oro di Hollywood ormai piuttosto nutrito, anche se non esattamente popolare (vedi alla voce Incassi), che solo negli ultimi anni ha visto The Fabelmans (Spielberg), Mank (Fincher), il succitato Tarantino, Blonde (Dominik)…
Funziona? Dipende da quanto si è disposti a scendere a patti con questa regia fracassona e ammiccante, con questo Chazelle che davvero (osserva Menarini) “non si capisce se ci fa ci è”. Qualunque cosa sia Chazelle c’è da sperare che continui a esserlo ancora per un po’, perché questa clamorosa, glamourosa commistione di kolossal e commedia malgrado tutto lascia un segno.
Quasi 1900. A un prete danese con la passione per la fotografia viene assegnata una parrocchia in Islanda. Parte controvoglia per un viaggio periglioso in cui l’amico interprete incontra una morte tragica. E forse è il più fortunato dei due.
In Godland la questione fotografica non è al centro, è letteralmente da tutte le parti, a partire dalla bizzarra scelta di formato 1.33: 1 che ricorda i dagherrotipi di fine Ottocento, poi la scelta di girare in pellicola 35mm e la potente cinematografia di von Hausswolff che ritrae un’Islanda bella e terribile, incompleta come l’Amazzonia di Aguirre (Herzog), una terra in cui pare che il Creatore debba tornare un giorno per finire la creazione.
E come in Herzog, al cuore dell’opera pulsa la lotta impari tra uomo e natura. E ancora la critica postcoloniale che si articola nel rapporto gerarchico tra islandese, lingua natia/naturale, e danese, lingua colonizzante/civile. E ancora una satira intrisa di humor nero alla Lanthimos che graffia l’ipocrisia dei costumi, soprattutto religiosi.
Insomma un film con tre o quattro cuori, come un calamaro, ma altrettanto sguiscio, privo di spina dorsale, che annida in ogni genere senza abitarne nessuno, gettando fumo, anzi inchiostro, in faccia allo spettatore per almeno 40 minuti più del necessario. E come tanti calamari finisce, a dispetto della sua innegabile intelligenza e ammaliante mostruosità, arrostito.
Traduttrice vedova con figlioletta a carico cerca ricovero per accudire il padre (anziano filosofo afflitto da malattia neurodegenerativa) e trova insperato nuovo amore (vecchio amico cosmo-chimico) che però è sposato.
In questa narrazione di stampo rohmeriano le tensioni sentimentali, familiari, sociali, intellettuali, si aprono come tante parentesi lasciate in sospeso, attraversate dall’espressività straordinaria di Léa Seydoux. Il sospetto è che senza di lei, il film avrebbe avuto ben poco da mostrare e ancor meno da dire: mentre il montaggio sminuzza il racconto in piccoli frammenti muti, Hansen-Love ci regala dialoghi indimenticabili come “Ti amo, ma è complicato” o “Signora Kingsler, abbiamo sentito tanto parlare di lei”.
Forse timorosa di non farsi capire, chiude con una bella cartolina finale da Montmartre che sarebbe perfetta anche per una pubblicità dei Panciok. Magari sarà pure stato “Un bel mattino”. “Un bel film” proprio no.
Francia e Argentina protagoniste, come ai mondiali. Apre e chiude la classifica l’Argentina, con il crudelissimo Vortex di Noé, chiude il leggero ma sfizioso Finale a sorpresa. Nel mezzo la sorpresa Saint Omer, recensito per Ondacinema. Ho scritto anche di Nope e Un eroe, gli altri li commenterò a breve.
Flop dell’anno il celebrato Crimes of the future di Cronenberg, che mi ricorda Il giuoco delle perle di vetro di Hesse: scritto con le intenzioni di realizzare un capolavoro, ed è semplicemente la summa di lavori precedenti (che erano migliori). Un lavoro un po’ pedante, un po’ scalcagnato, intelligente in ogni pagina (inquadratura) ma con vari difetti di scrittura e coesione che ne minano il valore.
Classifica:
Red Rocket. Molti l’hanno trovato sottotono, per me è la commedia dell’anno.
1.Vortex (Gaspar Noé)
2.Memoria (Apichatpong Weerasethakul)
3.Licorice pizza (Paul Thomas Anderson)
4.Nope (Jordan Peele)
5.Saint Omer (Alice Diop)
6.Red Rocket (Sean Baker)
7.Esterno notte (Marco Bellocchio)
8.The Fabelmans (Steven Spielberg)
9.Un eroe (Asgar Fahradi)
10.Finale a sorpresa (Gastón Duprat, Mariano Cohn)
Top di categoria:
Van Hoytema non delude in Nope.
Miglior regia…Gaspar Noé (Vortex)
Miglior attore…Simon Rex (Red Rocket)
Miglior attrice…Tilda Swinton (Memoria)
Miglior sceneggiatura…Alice Diop, Amrita David, Marie NDiaye (Saint Omer)
Oltre all’uscita del mio volume su Winding Refn edito da Falsopiano, che se non altro è da acquistare per la bellissima copertina (ma è anche molto funzionale se avete una gamba del tavolo più corta), segnalo alcune recenti visioni.
Bones and All, L. Guadagnino ★★★½☆☆
Adolescente invitata a un pigiama party ha un languorino e sgranocchia il dito di un’amica.
Allora fugge e viaggiando on the road scopre persone con gli stessi gusti: un creep (un indimenticabile Rylance) e un fidanzatino (un dimenticabile Chalamet).
L’amore non sazia, ma spesso ci divora.
Succoso
Triangle of Sadness, R. Ostlund ★★☆☆☆
Comincia come una satira intellettuale e continua come “Selvaggi”.
Ezio Greggio almeno non c’è, ma la commedia, ammiccando con eccessiva disinvoltura al pubblico americano delle pop comedy, va comunque alla deriva.
Più che Triangle of Sadness è un triangolo delle Bermuda in cui Ostlund affonda il suo cinema.
Naufragico
The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft, W. Herzog ★★★½☆☆
Usando il footage pluridecennale di due vulcanologi uccisi da un’eruzione, Herzog compone il solito affresco su una natura fascinosa e terrificante sfidata da personaggi oltre i limiti.
Viene quasi il sospetto che da anni diriga sempre lo stesso film.
Bambina con placca di titanio in testa, poi ragazza, ballerina, anzi strip-teaser, anzi serial killer, poi in fuga, diventa ragazzo, anzi figlio, scomparso, anzi ritrovato, di un capo-pompiere, anzi amante, partorisce bimbo di titanio.
Gambler professionista (Isaac) pratica esistenza routinaria e dimessa per dimenticare di aver torturato gentaglia ad Abu Ghraib. Quindi adotta giovane orfano vagabondo e gli insegna il mestiere. Schrader ruba l’incipit a PT Anderson (Hard Eight) e il finale a sé stesso (Light Sleeper). Il poco che resta è originale.
Giàvvisto
Drive My Car, R. Hamaguchi ★☆☆☆☆
Regista scopre che la moglie lo tradisce con giovane attore. Lei lo lascia, nel senso che muore. Lui si confiderà con la sua autista, una giovane taciturna che ha alle spalle un passato di abusi.
Lungo melò Murakamiano, emotivamente vistoso e ridondante, davvero poco giapponese: gente che si abbraccia nella neve sussurrandosi che bisogna andare avanti.
Acclamato ovunque come un capolavoro. Ma non è colpa mia.
Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).
Sopra, Mean Streets, M. Scorsese, 1973. Sotto Pusher, N. Winding Refn, 1996.
In Pusher, esordio di Nicolas Winding Refn, ritroviamo “il senso di opprimente fatalismo, di repressione emotiva, di violenza endemica e autodistruttiva, la sessualità ansiogena, irrisolta e infine il realismo autodafé, la cinematografia granulosa e i viraggi forti, retaggio di quel cinema americano underground, low-budget e fieramente periferico, gli irripetibili anni di Karel Reisz, Tobi Hooper, Martin Scorsese, John Cassavetes, William Lustig…”
Qui, il confronto tra due piani medi al bancone di un bar rivela tre importanti dettagli. Il primo, una tensione latente pronta a esplodere in qualsiasi momento. Il secondo, una passione per i cromatismi accesi, con un colore in particolare – in questo caso, il rosso – che satura l’inquadratura fino a trascendere la semplice funzione descrittiva o simbolica, configurandosi piuttosto come un evento, denso e irriducibile nella sua pregnanza visuale. Terzo, che Harvey Keitel era in gran forma.
Non senza qualche indecisione, allego il mio best of dei film usciti (e visti) nel 2018.
1. Un affare di famiglia (Hirokazu Kore’eda)
2. Il filo nascosto (Paul Thomas Anderson)
3. Roma (Alfonso Cuarón)
4. L’albero dei frutti selvatici (Nuri Bilge Ceylan)
5. Dogman (Matteo Garrone)
6. Mektoub, My Love: Canto uno (Abdellatif Kechiche)
7. Visages, Villages (JR, Agnès Varda)
8. Il sacrificio del cervo sacro (Yorgos Lanthimos)
9. Ex Libris – The New York Public Library (Frederick Wiseman)
10. Un sogno chiamato Florida (Sean Baker)