Secondo Bertolucci, “senza ’68 non ci sarebbe stato Ultimo tango a Parigi“. Il suo cinema, pullulante di lubriche fantasie e ossessioni private, va contestualizzato nell’ambito della sexual liberation che gradualmente permise la rivalutazione dell’erotismo come forma espressiva, anche al cinema (Bertolucci in Italia, Oshima in Giappone, Jaeckin in Francia, Franco in Spagna…)
In questo senso Ultimo tango, circonfuso ancora oggi da una ingenerosa cattiva fama (burro e affini), è uno dei film più rappresentativi del cinema di Bertolucci. La parabola sentimentale di Schneider e Brando, che lasciano le proprie identità al di fuori del pied-à-terre dove si incontrano, valorizza la dimensione estatica dell’erotismo, in senso etimologico – ex-stasis, “esser fuori da sé stessi”.
Esotismo
Il tè nel deserto, 1990
La dimensione estatica non è però una condizione tipica del solo erotismo. Piuttosto, è un’aspirazione caratteristica dei personaggi bertolucciani, che cercano nella fuga la liberazione dal malcontento endemico di una classe borghese agiata e insoddisfatta. L’esotico assume quindi le sembianze di un orizzonte estraniante e (illusoriamente) salvifico.
Come il deserto nel Tè nel deserto, adattamento patinato e decadente del romanzo The Sheltering Sky di Paul Bowles, poco amato dalla critica malgrado la roboante colonna sonora di Ryuichi Sakamoto, la ricercata cinematografia di Vittorio Storaro e gli incantevoli paesaggi del Maghreb.
Fotografia
Il conformista, 1970
Ovvero, in senso etimologico, “scrivere con la luce” (phos-graphia). È quello che ha fatto Vittorio Storaro, cinematographer di Bertolucci da Il conformista a Piccolo Buddha (1970-1993). Vincendo nel frattempo tre Oscar, per Apocalypse Now (Coppola 1979), Reds (Beatty 1981) e L’ultimo imperatore (Bertolucci 1987).
La raffinata fotografia di Storaro, ispirata alla teoria dei colori di Goethe, adopera la dialettica di ombra e luce come un linguaggio capace di veicolare concetti e condizionare la sfera percettiva dello spettatore. Gli effetti sono già visibili nel primo lavoro che sancì la collaborazione fra Bertolucci e Storaro, Il conformista, nel quale tormenti e conflitti vengono espressi in chiave cromatica, prima ancora che narrativa: “i colori blu, azzurro, violetto, verde, giallo, arancio, si trovano situati tra due limiti estremi, il nero e il bianco, che sono anche i due limiti opposti della vita, il buio e la luce” (Storaro su Taxidrivers, 2010).
Steven Murphy (Colin Farrell), stimato cardiologo, coltiva una strana amicizia con il sedicenne Martin (Barry Keoghan). Da quando Martin incontra la moglie di Steven, Anna (Nicole Kidman) e i figli Kim e Bob, accadono inquietanti e terribili disgrazie.
Commento
KOASD è una storia profondamente ellenica, nei toni e nei temi. Non tanto perché il regista è greco, quanto perché la fonte d’ispirazione dichiarata è il dramma euripideo “Ifigenia in Aulide”. Pertanto, la conoscenza dell’opera di Euripide agevolerà, e non poco, la comprensione del film.
“Ifigenia in Aulide” è ambientata poco prima della guerra di Troia. Una bonaccia innaturale blocca la flotta achea nel porto di Aulide, in Boezia, e impedisce agli eroi di salpare. L’indovino Calcante dichiara che l’assenza di venti è causata dalla dea Artemide, offesa dal capo della spedizione Agamennone. L’indovino predice anche che soltanto il sacrificio di Ifigenia, figlia maggiore di Agamennone, placherà l’ira di Artemide. All’ultimo momento, la dea salva Ifigenia e invia al suo posto una cerva sacra.
Il tema focale del film è la colpa. Secondo un perfetto stilema della mentalità greco-arcaica, ogni colpa dev’essere espiata, ma non necessariamente dal colpevole. La colpa ricade sulla famiglia, sulla città o persino sulla stirpe di chi per primo violò le regole. Nel film, la colpa assume il volto innocente e inquietante di Martin, che ha il potere soprannaturale di far ammalare, uno dopo l’altro, i membri innocenti della famiglia di Steven.
Martin (Keoghan). Il momento degli spaghetti è assai più inquietante di numerose scene “horror” viste di recente
Come nel dramma euripideo, la colpa è un principio astratto ma concreto, irrazionale e inesorabile, una minaccia che infesta l’orizzonte morale e narrativo dell’intera opera, sospesa sui personaggi come un cielo cupo. Come nel dramma euripideo, il responsabile rifiuta di riconoscersi tale; la colpa non scatena la vergogna, bensì l’ipocrisia.
La scienza e la razionalità cui Steven si appella nel momento del bisogno sono inutili. Vano è anche il ricorso alla violenza, contro una giustizia soprannaturale che è essa stessa suprema violenza, suprema indifferenza.
Lo sguardo glaciale di Anna (Kidman).
Solo Anna ha il coraggio di incrociare l’algido sguardo di Martin – gli occhi del fato – nel tentativo di stabilire un dialogo, di trovare una soluzione, di riscattare le numerose e inconfessabili colpe del marito (negligenza, opportunismo, tradimento, probabile inclinazione alla pedofilia…). Dimostrando senso pratico, resilienza e intuito per i principi ineffabili e inesprimibili della vita, qualità proprie delle donne euripidee – e forse di tutte le donne.
Da un punto di vista formale, KOASD è un dramma dal ritmo compassato, ricco di riferimenti, che vira con garbo verso l’horror psicologico. Con poche regole essenziali e talentuoso rigore deduttivo, lo spettatore viene traghettato nel regno dell’assurdo senza traumi, senza scosse, come nella traversata di un fiume ampio e calmo.
I film di Lanthimos si spiegano da sé, come eleganti teoremi costruiti su pochi semplici assiomi. È la loro bellezza, poiché creano mondi immaginari ma credibili, paradossali e intriganti. È il loro limite, poiché le conclusioni sono già implicite nelle premesse, come esemplifica il dialogo fra Steven e Martin nella caffetteria dell’ospedale.
Tale struttura, ovviamente, è intrisa di black humour, unico elemento alieno rispetto all’originale dramma euripideo (e alla tragedia greca in genere), che tuttavia è un elemento ricorrente nella filmografia di Lanthimos (e nel cinema drammatico contemporaneo di qualità).
Menzione particolare per la colonna sonora, che oltre ad includere brani e autori eccellenti (Bach, Schubert, Ligeti…) dimostra una singolare e indipendente personalità. La maniera in cui le note sembrano commentare e talvolta opporsi agli sviluppi narrativi ricorda il ruolo del coro nelle tragedie greche. Sarà un caso?
Urla, schianto, un monologo torrenziale. L’attacco perentorio rivela sin dalle prime scene una cifra narrativa e stilistica ben delineata. Montparnasse femminile singolare, esordio di Léonor Serraille, è la storia di Paula (Laetitia Dosch), trentenne costretta a rifarsi una vita a Parigi dopo la brusca rottura con il fidanzato Joachim, fotografo affermato […] Immersa in una società liquida, il cui unico tratto permanente è la precarietà (emotiva, oltre che economica), Paula sperimenta la difficile ricostruzione di un’identità tramite l’esercizio di un’autonomia percepita innanzitutto come solitudine.
Storia vera della balzana Tonya Harding (Margot Robbie), campionessa di pattinaggio, poi criminale, poi pugile.
Commento
È facile intravedere nella smagliante parabola sportiva di Tonya una grottesca distorsione dell’American Dream. La competizione per la vittoria equivale alla lotta per il successo, e la violenza non rappresenta una deviazione dallo status quo, bensì la sua più naturale e fulgida espressione.
Gillespie sceglie un taglio leggero e scanzonato per la mise en scene di questo biopic, diretto con un taglio documentaristico ispirato al primo Allen. L’ottima caratterizzazione degli interpreti bilancia una regia puntuale ma povera d’inventiva. Le gag consistono più che altro in interpretazioni caricaturali intrise di stereotipi redneck.
Lynne Ramsay si conferma nel novero delle firme più incisive e riconoscibili del cinema contemporaneo. Al quarto lungometraggio, adattato da un romanzo di Jonathan Ames, confeziona un thriller crudo e laconico, premiato a Cannes per la migliore sceneggiatura e la migliore interpretazione maschile (Joaquin Phoenix).
“Alpi” è un collettivo di quattro persone che impersonano i defunti da poco scomparsi allo scopo di alleviare le sofferenze dei congiunti. Il film privilegia la prospettiva di un membro del gruppo, Monte Rosa (Angeliki Papoulia).
Commento
La seconda collaborazione con il diabolico Efthymis Filippou genera un film che integra il precedente Kynodontas formando una ideale bilogia, come confermato dal regista stesso. Se il primo narrava la fuga di un’adolescente (sempre la bravissima Angeliki Papoulia) da una realtà fittizia, Alps è invece la storia di una donna che in una realtà fittizia cerca la salvezza; come un Platone all’inverso, Monte Rosa percorre a ritroso l’ingresso della caverna.
Il tema principale di Alps è dunque l’identità. Utile e opportuno in questo senso il riferimento alla filosofia girardiana,* per la quale la costruzione dell’identità passa attraverso la pulsione mimetica del desiderio. Quando una giovane, bella e promettente tennista muore in un incidente d’auto, Monte Rosa si offre ai genitori di sostituirla. Dalla febbre mimetica consegue uno stato delirante, in cui l’identità della protagonista si sovrappone all’identità della defunta, causando l’inevitabile rigetto.
Evidentemente, un processo di costruzione dell’identità personale fondato sul desiderio mimetico conduce necessariamente al solipsismo e all’emarginazione. La reiezione di Monte Rosa (e più in generale, la solitudine dei vari personaggi) viene sottolineata dalla regia tramite vari espedienti, spesso enfatici. In luogo della classica dialettica di campo e controcampo, i dialoganti sono spesso ripresi di nuca. Battute fuori campo e sfocature acuiscono l’impressione di isolamento, già evocata dagli ambienti spogli, ampi e vuoti. La camera esibisce una prossemica impazzita, che alterna alla vacuità dei campi medi e lunghi una serie di primissimi piani e contre-plongée. Oltre alle inquadrature, anche la recitazione – Brecht docet – induce un forte senso di straniamento.
La Ginnasta.
Alla follia generale si sottrae la giovane e impulsiva Ginnasta (Ariane Labed – l’unica di cui non sappiamo il nome in codice), con le cui performance si apre e chiude la pellicola. Un discorso a parte meriterebbe la danza, elemento ricorrente nella filmografia di Lanthimos. Per la filosofa Susanne Langer, la danza è innanzitutto presentazione spazio-ritmica della vita interiore, intesa come consapevole espressione simbolica.
Une danse n’est pas un symptôme du sentiment du danseur, mais une expression par celui qui la compose de sa connaissance des multiples sentiments.**
La danza della ginnasta è espressione della propria identità, in un film che intende l’identità come performance. Le interpretazioni del collettivo “Alps”, attraverso le quali si materializzano le identità perdute degli estinti, sono infatti null’altro che performance.
Non ha tutti i torti Mereghetti (Corriere della Sera, 04/09/11) quando definisce Alps un film autistico e auto-referenziale, intriso di misantropia. Tuttavia, l’allegoria è troppo esplicita perché la si possa prendere sul serio; siamo lontani (e per fortuna) dai foschi melodrammi alla von Trier. A rinfrescare l’atmosfera cupa e tesa di questo dramma bizantino giunge a sprazzi, come al solito, una pioggia di ironia.
★★★☆☆
*René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, 1961.
**Susanne Langer, “L’image dynamique” in Boissière e Duplay, Vie, Symbole, Mouvement, 2012.
Figlio, Figlia Maggiore e Figlia Minore vivono reclusi in completo isolamento dal resto della società civile. Padre e Madre li educano secondo principi rigorosi, evitando ogni potenziale cattiva influenza. Saranno pronti a uscire di casa quando cadrà loro il dente della maturità, ovvero il canino (in greco, kynodontas).
Commento
Al terzo lungometraggio, Lanthimos mostra già una poetica autoriale ben delineata e una completa padronanza del mezzo. Mediante un’estetica bidimensionale, caratterizzata da un regime di simmetrie tendenzialmente statiche, il regista greco plasma un microcosmo familiare disadorno e claustrofobico, rigidamente ordinato secondo un modello gerarchico di stampo patriarcale.
Secondo Giovanni, in principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum. Allo stesso modo principia Kynodontas, con la grottesca distorsione semantica di vocaboli comuni: il linguaggio è servus dei, strumento di potere dell’autocrazia genitoriale. Così, la “autostrada” diventa un forte vento, la “fica” una lampada di grandi dimensioni. Il “verbo” è quindi distorto e corrotto in nome di un’originaria purezza, la cui fonte è “Dio”, ovvero il Padre, la cui autorità si estende al controllo degli impulsi sessuali di ogni membro familiare.
Dove non può il linguaggio, è la paura che difende e consolida l’esercizio del potere. La famiglia è un perverso Olimpo in cui il tempo non è scandito dallo scorrere dei giorni e delle stagioni, ma da giochi e rituali apotropaici. La ricreazione si configura dunque come ri-creazione, ovvero come implicito rinnovamento delle gerarchie costituite. Sarà il cinema a spezzare il giogo di questo eterno solipsistico presente, inducendo la Figlia Maggiore a una fuga precipitosa – al cui esito allude l’inquadratura finale, omaggio a Citizen Kane.
I riferimenti si sprecano per questa delirante distopia familiare, intrisa di un’ironia esilarante e crudele. Tanto si è detto di Lanthimos: provocatorio come Von Trier, acuto come Haneke, irriverente come Buñuel. Si potrebbero individuare anche nessi extra-testuali: parlando di letteratura, come nei racconti di Kafka il grottesco non irrompe nella narrazione in medias res, bensì la guida sin dall’origine forzando personaggi (e spettatori) a un difficoltoso adattamento. Parlando di estetica, la scabrosa esibizione di una nudità acerba e contratta evoca i soggetti e le atmosfere di Balthus.
A sinistra, Thérèse sogna, di Balthus. A destra, un’inquadratura di Kynodontas.
La verità è che Lanthimos possiede un genuino tocco d’autore che già rende Kynodontas un classico moderno, eloquente nella sua essenzialità e compiuto nella sua freschezza.
Londra, anni ’50. Lo stimato couturier Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) confeziona abiti di lusso per l’alta borghesia londinese, gestendo la rinomata maison insieme alla sorella Cyrill (Lesley Manville). L’incontro con Alma (Vicky Krieps) sconvolgerà la sua vita solitaria.
Commento
Diretto da Anderson con impeccabile manierismo, in uno stile più sobrio e formale rispetto ai precedenti lungometraggi, Phantom Thread è una storia d’amore di ispirazione hitchcockiana (Rebecca, Vertigo), ovvero pervasa da pulsioni psicologiche sotterranee che orientano e impregnano la narrazione.
Come molti creativi, Reynolds Woodcock è un uomo solitario ed egocentrico, afflitto da inveterate compulsioni e sinistre nevrosi, che la sorella asseconda in toto. Eloquente la scena in cui il couturier fa spogliare Alma per confezionarle un vestito: il ricorso al metro e alla stoffa allude rispettivamente al bisogno di misurare e contenere ogni impulso, inclusa la sessualità (mai direttamente rappresentata nel film). Difatti, l’ancestrale “maledizione” di Reynolds ha origine edipica: la madre gli ha insegnato il mestiere, gli ha commissionato il secondo vestito nuziale e continua a visitarlo durante il sonno e la veglia. La richiesta di Reynolds ad Alma (“Vuoi aiutarmi?”) è pertanto allegorica.
La “maledizione”, la “fattura” (in inglese, curse), citata dallo stesso protagonista, è un richiamo esplicito alla tradizione fiabesca europea. Arduo non pensare a La bella e la bestia, celeberrima opera della de Beaumont: un principe misantropo e solitario, colpito da un sortilegio (Reynolds), viene riscattato e redento da una giovane candida e innamorata (Alma). Se non fosse che la giovane in questione, sia pur innamorata, non è certo candida, poiché avvelena il marito.
La storia del cinema è ricca di “geni maledetti”, così come è ricca di femmes fatales (una delle ultime in ordine cronologico, anch’essa dedita a occasionali avvelenamenti, è la Rachel di cui scrivo per Ondacinema). Il contributo originale del film è la sussunzione di un tale disordine costituito nell’ordinarietà dei rapporti sentimentali: quando Reynolds scopre l’inganno, abbraccia il proprio ruolo di vittima (“baciami, prima che cominci a stare male”), così come Alma esprime il desiderio che, a mutate circostanze, sia il marito a dominarla (“ti voglio inerme, e poi di nuovo forte”). Crudeltà e ipocrisia sono dunque riconosciute non come ostacoli, ma come condizioni necessarie di un’autentica esperienza amorosa.
Il turning point dell’intero film. Reynolds scopre di essere stato avvelenato e invece di esplodere in un furioso attacco di rabbia, sorride e approva compiaciuto il folle piano di Alma.
In altre parole, il frequente rovesciamento dei rapporti di potere all’interno di una relazione è la fiamma che alimenta e vivifica l’amore (“una casa che non cambia è una casa morta”), persino quando il motore di tale dialettica è l’odio, la brutalità o la menzogna. L’inserto celato nell’abito nuziale (“never cursed”) è un elemento essenziale per comprendere l’ambivalenza di Reynolds, il cui dispotico egocentrismo è bilanciato dal desiderio inconscio di ricongiungersi al grembo materno, sublimando la più inconfessabile delle pulsioni: quella incestuosa (Freud, Totem e tabù). Proprio Alma, tramite l’esercizio di una crudeltà tanto dissennata quanto metodica, esorcizzerà il fantasma della madre, sostituendosi a esso. Ecco allora che il Phantom Thread, il filo nascosto, non sarà quello materiale che nasconde il messaggio nell’abito nuziale, quanto piuttosto quello immateriale che connette, agli occhi di Reynolds, la madre e la moglie.
Per metà Pigmalione, emblema della virilità che esercita sulla donna un potere demiurgico, e per metà Edipo, emblema di una virilità assoggettata alla figura materna, Daniel Day-Lewis in questa sua ultima, magnifica interpretazione, illumina la natura ambigua e contrastante dell’amore, sentimento che unisce e separa, produce e distrugge e, parafrasando Eraclito, “dai discordi trae bellissima armonia”.
Anni ’60, Baltimora. La giovane Elisa Esposito (Sally Hawkins), muta dall’infanzia, scopre nel laboratorio dove lavora come donna delle pulizie una creatura anfibia dall’aspetto umanoide. Il sadico colonnello Strickland (Michael Shannon) riceve dal generale Hoyt l’ordine di sopprimere la creatura e vivisezionarla prima che la scoprano i sovietici, rappresentati in segreto dall’ambiguo dottor Hoffsteller (Michael Stuhlbarg).
Elisa, impietosita, decide di salvarla con l’aiuto dell’amico Giles (Richard Jenkins).
Commento
Il film confezionato da del Toro è un romance fiabesco screziato da contaminazioni erotiche e horror, che oltre ad affiorare visualmente evocano plurimi riferimenti archi-testuali. Esplicito il rimando a Il mostro della laguna nera (J. Arnold, 1954), incubo d’infanzia del regista, ma anche evidente l’ispirazione shelleyana: Frankenstein è l’archetipo dell’alterità percepita come devianza da emarginare e da sopprimere.
Ovvia la lettura sociologica. Ad uno stereotipico antagonista angry white male, bigotto e brutale, si oppone una schiera di coraggiosi emarginati: una donna di colore, una muta, un omosessuale, un russo e, ça va sans dire, la creatura. La fiaba romantica si configura dunque come un invito a coltivare la propria marginalità per sovvertire un ordine costituito marchiato da un conformismo repressivo e discriminatorio.
La semplicità dell’intreccio, riducibile a stilemi proppiani*, e la correlata carenza di complessità psicologica ravvisata negli antagonisti, artificiosamente fedeli al ruolo assegnato, non intacca in maniera eccessiva la qualità del film, segnato da una grande cura degli ambienti e delle singole scene, esaltato da gustose sequenze macabre e attraversato da una pulsante vena di erotismo.
★★★☆☆
*Il riferimento è a Vladimir Propp, Morfologia della Fiaba.