Pinocchio – M. Garrone, 2019

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Una visualità talmente solida che si sarebbe sostenuta anche senz’audio.

In disaccordo con quella critica che ha visto in “Pinocchio” poco più di una “fredda illustrazione” (Mereghetti), un’altra critica ha evidenziato il valore intrinseco dell’estetica garroniana al di là del racconto. Qui si accenna soprattutto alle arti “minori” della cinematografia, non di rado trascurate: costumi, trucco, scenografia. E quando celebrate produzioni hollywoodiane si macchiano in questo senso di sciattezza (vedi alla voce “La favorita“), perché non rivalutare le eccellenze nostrane?

A Massimo Cantini Parrini, alias “l’archeologo della moda”, tre David e due Nastri, si devono i meravigliosi costumi d’epoca, le giubbe con i bottoni staccati, ricuciti, sostituiti, i tessuti laceri, l’attenzione ai materiali – i feltri, le sete, il tulle, l’organza… A Mark Coulier, make-up artist che ha curato “Suspiria” e la serie di Harry Potter, due Oscar e un Bafta, si devono le dita unticce del Gatto e la Volpe, la lumacona incipriata, i trucchi prostetici e le conturbanti zoomorfie. Mentre Dimitri Capuani, due David e due Nastri, si è ispirato alle illustrazioni di Chiostri e Mazzanti e alla pittura dei Macchiaioli per evocare ambienti fiabeschi, costruiti ex-nihilo come il ventre del pescecane o riconosciuti nei borghi petrosi della Toscana, tra le calci bianche della Puglia.

“Pinocchio”, non un esercizio di stile ma uno stile autentico, quel barocco contemporaneo che include Winding Refn e Sorrentino tra i suoi rappresentanti più noti. Un cinema iconocentrico che predilige lo stile all’intreccio, la stasi all’azione, la bellezza all’evento, l’immagine al movimento.

★★★★☆

Parte dello speciale redazionale su Ondacinema.