The Ugly Stepsister – E. Blichfeldt, 2025

Il modello irraggiungibile troneggia nello specchio; a dx, Elvira è prigioniera dello specchio in cui è riflessa l’immagine di Agnes. Destino prefigurato in un’inquadratura

“The Ugly Stepsister” (TUS) è un film sull’eterno duello tra la forma e la materia. Forma che identifica l’ideale, l’astratto, il canone etereo della bellezza che trascende ed ascende la materia; e la materia che invece rifiuta ogni sublimazione, si aggrappa ostinatamente alla carne, ai fluidi corporei, si ostina a cadere e colare in cieca obbedienza alla legge di gravitazione. Da un lato le immagini sognanti e sfocate di Elvira, “la brutta sorellastra”, una glassa audiovisiva che impasta colori tenui, bokeh e riff di musica elettronica; dall’altro lato i genitali di Cenerentola-Agnes, dello stalliere in piano medio, il primissimo piano sul seme che cola.

La dinamica tra Agnes ed Elvira si riassume nella scena in cui la prima imbocca la seconda con forchettate di spaghetti che assomigliano e vermicelli, mentre Elvira si fa il bagno e legge poesie. “Cosa simboleggia il serpente che tutto divora?” chiede sognante; “Il pene” risponde Agnes con schietta semplicità. La risposta scandalizza e indispettisce Elvira. Mentre Agnes conosce la sessualità e il lavoro, ha il cinismo dell’età adulta, Elvira invece legge poesie, sogna a occhi aperti, si fa manipolare da una madre ambiziosa e ingombrante. In altre parole, Agnes conosce la realtà, mentre Elvira conosce solo la forma che la realtà dovrebbe avere, il modello che orienta e condiziona le sue scelte.

Idealità e realtà

Difatti la troviamo spesso ripresa con un modello irraggiungibile nell’inquadratura, talvolta la madre, talvolta Agnes. Come NWR, ma con effetto diverso, Blichfeldt ricorre tantissimo allo zoom-out, movimento che si allontana dal soggetto per riassumerlo in un quadro più ampio. In TUS, questa scelta registica sortisce l’effetto di rimpicciolire e isolare ancora di più Elvira, rendendola preda di quelle dinamiche invisibili e alienanti che l’assoggettano a un modello di bellezza tirannico, irraggiungibile. Reificata, cioè resa oggetto, fino al punto di venire scartata dalla madre come un pacco (sotto).

La bellezza è da sempre una valuta corrente nel mercato sociale, dalla kalokagathia dei Greci (Achille il bello, Tersite il brutto) fino ai giorni nostri. Così Elvira, plasmata dalla madre come una moneta dal fabbro al fine di acquistare uno status più elevato, cerca inghiottendo un uovo di tenia una metamorfosi alchemica che la trasfiguri in pura idealità di bellezza, offrendo un ironico e angosciante contrappunto all’idea che “quello che conta è all’interno”; non un elogio della profondità interiore, ma dei trucchi che consentono alla volgarità dei corpi di aspirare alla nobiltà della forma, anche quando questi non lo consentirebbero.

a sx, Borowczyk

La bellezza di Elvira è infatti, come accade in The Neon Demon di Refn, artificiale, e perciò inautentica. Offrendo una provocazione degna di Walerian Borowczyk, oltre che un divertito omaggio al suo cinema, la regia sfacciata di Blichfeldt propone invece nel campo/controcampo in primo piano del culo di Agnes e del pene dello stalliere, organi genitali che si parlano (e si trovano) una sintesi aristotelica della perfetta unione di materia e forma, un sinolo di bellezza che però è per sua natura inscindibile dalla sua natura contaminante, dalla sua virtù pornografica e perciò non idealizzabile, refrattaria all’immaterialità dell’astratto.

Per questo non è sufficiente l’analisi di De Corinth sullo Specchio Scuro, che parla di cinema ossessionato dall’oggetto, citando la scarpetta, l’uovo di tenia. De Corinth confonde l’oggetto in quanto oggetto con l’oggetto dell’inquadratura, che spesso in TUS è una parte del corpo – genitali, natiche, occhio, naso, piede. Quello di Blichfeldt non è uno sguardo ossessionato dall’oggetto, dal feticcio, come quello di NWR; è piuttosto uno sguardo reificante, oggettivante, (proprio nel senso classico marxiano della Verdinglichung, il “trattare come oggetto ciò che non lo è”) che trasforma il corpo di Elvira nel piombo dell’alchimista, nella creta di Pigmalione.

Per Elvira, l’esperienza della metamorfosi è tutto il contrario della sessualità di Agnes: cruda, dolorosa, e solitaria. Espressa attraverso immagini fulciane, e altre che ricordano il più recente The Substance, anche molto vicino come tematiche, TUS rappresenta una parabola di come la bellezza dell’ideale possa pervertire e distruggere la realtà più di qualsiasi ideologia materialista: è in nome dell’uguaglianza che Robespierre tagliava le teste; è in nome della pace che gli USA tiravano l’atomica sul Giappone; è in nome della sicurezza che Israele commette un genocidio contro i Palestinesi. Uguaglianza, pace, sicurezza sono ideali meravigliosi, ma la realtà diventa atroce quando si piega a un’idealità priva di misura, priva di giudizio.

L’obiettivo polemico del film è ovviamente l’idealità della bellezza, che attraverso le coordinate culturale dei patriarcati impone alle donne un preciso modello di comportamento e di espressione, di cui l’accademia è una fedele emanazione: un’istituzione gestita da donne, per donne, allo scopo di compiacere gli uomini. Blichfeldt si scaglia contro la virtù alienante della bellezza ideale: l’alienazione descrive una perdita della libertà sottile, impercettibile, al contrario della coercizione che indica una perdita della libertà evidente e manifesta. Poi, la coercizione viene dall’esterno, l’alienazione deriva dall’interno: lo scandalo dell’alienazione è che viene scelta dagli stessi individui che ne sono vittime. Dall’interno, appunto: come l’uovo di tenia.

esposizione del corpo femminile tra TUS e The Neon Demon

Non è singolare in questo senso che tutti questi horror sulla bellezza – Neon Demon, The Substance, La morte ti fa bella , Sick of Myself e ora TUS – recuperino il paradigma metaforico dell’incorporazione. Scrivevo già qualche anno fa nel mio libro su NWR

il paradigma dell’incorporazione: ciò che è fuori viene messo dentro, sopprimendo l’antagonismo attraverso una comunione violenta. Che cos’è in fondo anche il rituale della comunione – mangiare il cadavere di Dio – se non un rituale che si sforza di riunire l’interno e l’esterno, l’umano e il divino, l’immanente e il trascendente, la vita e la morte? In questa Wonderland capovolta, ogni donna è ostaggio di un modello di bellezza impostole dallo specchio. Il linguaggio della pubblicità, della moda e della cosmesi predica che l’invecchiamento è negativo, l’attività fisica è positiva, la peluria va eliminata, gli umori corporali vanno coperti da profumi sintetici, l’assenza di trucco e messa in piega indica sciatteria, e infine che il necessario maquillage, così come la pelle, deve essere stabile e omogeneo, non deve essere soggetto a deterioramento: rossetti, deodoranti, mascara, ciprie, smalti e gel devono durare.

Le pillole, come in Matrix, aprono ponti o finestre o voragini tra dimensioni incomunicabili. In TUS, si tratta di un uovo di tenia che provoca in Elvira una gravidanza al contrario, un dimagrimento sterile che l’avvicina alla morte e sovverte gli equilibri naturali: mentre Agnes si dispera davanti al corpo putrefatto del padre, da cui escono i vermi, Elvira ingerisce i vermi di proposito per innescare una rinascita. Tutti i corpi umani vivono, muoiono e diventano vermi, mentre il corpo di Elvira inizia a vivere, socialmente parlando, solo dopo aver ingerito il verme solitario.

sopra Matrix, pillola rossa o pillola blu? sotto ancora the Neon Demon e il pasto oculare

A essere ingerito, spesso inconsapevolmente, è il paradigma alienante di una bellezza ideale che sfigura e trasfigura la donna secondo modelli patriarcali che sono in parte astratti, intangibili, eppure nocivi e radicati come la tenia dentro Elvira. Il montaggio di Blichfeldt alterna l’espulsione del verme a una fellatio della madre di Elvira: anche qui il pene diventa un verme, un oggetto da ingerire per soddisfare il piacere alienante di vedersi compiaciute della propria alienazione attraverso gli sguardi dell’uomo. Al contrario la sessualità di Agnes-Cenerentola, disinibita e animalesca, esprime una cifra consapevole ed emancipatoria, oltre che recuperare come nota giustamente De Corinth, l’origine della fiaba in “Cucendron, un gioco sul francese cul e cendre – letteralmente “culo di cenere” o “culo sporco”. Anche nelle origini occidentali del nome si nota una fusione tra sessualità femminile e uno stato di disonore o disgrazia”.

Eppure non va tanto meglio alla nostra Cenerella, costretta a sposarsi per abbandonare il nido, ad abbandonare il suo vero amore a.k.a. lo stalliere, a sottoporsi al cursus honorum di tutte le varie arti da madamigella tra gavotte e riverenze, e a farsi adottare da un principe poeta che, come dimostra una sequenza a metà film, è tutt’altro che principesco e poetico nei modi e nei pensieri. Nel denunciare l’artificialità dell’ideale della bellezza così spesso trasposto e celebrato nel modello patriarcale, TUS si lega forse a un modello meno ambiguo e più manicheo rispetto alla poetica cronenberghiana da più parti invocata per descrivere Blichfeldt. Ma per un esordio è tanta roba.

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