Joker – T. Phillips, 2019

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Meme.

Ritratto dell’antieroe da giovane.

Arthur Fleck, alias Joker, patisce nell’ordine un disturbo neurologico, un pestaggio, un licenziamento, un secondo pestaggio, la diserzione dei servizi sociali, un terzo pestaggio da parte del presunto padre – che rimane presunto perché la madre (colpita da infarto nel frattempo) soffre di delirio psicotico. E poi lo picchiavano da piccolo. Ci manca solo che Todd Phillips, il regista, sieda di fianco allo spettatore sussurrando: “Hai visto, poverino?”

La goffa strategia di manipolazione comincia con la sceneggiatura artificiosa e continua con la regia espressionista, ovvero consciamente orientata a rappresentare la realtà attraverso un filtro emotivo. Gli ambienti squallidi, le luci opache, l’utilizzo scolastico del commento musicale, i bruschi e sconnessi movimenti di macchina, ogni elemento converge nell’ostinata evocazione di una diegesi ansiogena che riflette i turbamenti psichici del protagonista sullo sfondo di un’insurrezione urbana.

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Un clownesco De Niro inscena le follie della società? O non siamo piuttosto noi ad aver plasmato le nostre vite sul modello farsesco del nostro riflesso mediatizzato?

Chiarissima l’ispirazione scorsesiana, che riprende da “Taxi Driver” i vagabondaggi metropolitani (e il personaggio di Phoenix), da “The King of Comedy” la deriva mediatica (e il personaggio di De Niro). Tuttavia, rispetto ai modelli citati la problematizzazione della sociopatia indotta, dell’alienazione urbana, delle disuguaglianze implicate dal capitalismo americano, si risolve in caricature fumettistiche; difficile cogliere nel sottotesto politico più di una vaga denuncia contro la disuguaglianza e un simpatetico accenno alle tesi più ingenue del positivismo sociale: ovvero, che non sono i criminali che rendono la società ingiusta ma è la società ingiusta che produce criminali.

Al di là dell’eccellente interpretazione di Joaquin Phoenix, il film ha ambizioni autoriali e telaio da blockbuster, e conferma entrambi gli aspetti nell’estetica compiaciuta che lo spinge a epicizzarsi, tra danze al ralenti sulle scalinate e carcasse di automobili in fiamme. I pregi e i difetti sono difatti gli stessi dell’epica: la capacità di avvincere è proporzionale alla banalità dei suoi stereotipi.

★★☆☆☆

A Beautiful Day – L.Ramsay, 2018

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Lynne Ramsay si conferma nel novero delle firme più incisive e riconoscibili del cinema contemporaneo. Al quarto lungometraggio, adattato da un romanzo di Jonathan Ames, confeziona un thriller crudo e laconico, premiato a Cannes per la migliore sceneggiatura e la migliore interpretazione maschile (Joaquin Phoenix).

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