Top 5 – film sui Vampiri

L’imminente rilancio del “Nosferatu” di Murnau in vari cinema sparsi in tutta Italia ha spinto Claudio Confalonieri e il sottoscritto a dedicare ai vampiri una puntata podcast del nostro Radiodrome – per Ondacinema

Insieme a noi Gaetano Pagano -esperto in monster studies e letteratura angloamericana, autore con Francesca Giro del podcast Monstrumana che è diventato anche un libro per Effequ.

Tra le domande che sono uscite, Quali sono i più bei film di vampiri nella storia del cinema?

Qua sotto la mia imprecisa Top 5.

Nosferatu (Murnau, 1922) ★★★★★

Vabbè, questa era facile. Un secolo di età e non sentirlo. Film non-morto, di una modernità impressionante. Praticamente Murnau inventa il montaggio alternato, che è anche una delle tecniche preferite di Nolan, più moderno di così si muore. Inventa anche l’idea che il sole distrugga i vampiri – il Dracula del romanzo di Stoker si muove in pieno giorno. Tuttora un punto di non-ritorno nella rappresentazione della figura del vampiro.

Vampyr (Dreyer, 1932) ★★★★★

La visionarietà di Dreyer ha fatto scuola. A sx, Vampyr. Dx, C’era una volta in America.

Murnau gira un film muto, Dreyer sonoro. Murnau si ispira a Stoker, Dreyer a Le Fanu. Murnau ama i campi lunghi, Dreyer i primi piani. Murnau è figlio dell’espressionismo e va verso il realismo, Dreyer è figlio di un’austerità nordica che deraglia nel surrealismo. Murnau è padrone delle ombre, Dreyer è padrone della luce. Murnau firma un capolavoro, Dreyer anche.

Nosferatu, il principe della notte (Herzog, 1979) ★★★★★

Herzog realizza la missione impossibile di rifare il Nosferatu e rivaleggiare con l’originale. Alcune differenze importanti sono: Uno, la sequenza iniziale sulle mummie messicane di Guanajuato, da cui trapela non solo l’appassionata natura viaggiatrice del regista ma anche la suggestione che il male sia ovunque, in qualunque tempo e continente. Due, il maggior rilievo di un grande cast – Bruno Ganz, Isabelle Adjani e Klaus Kinski. Tre, il grande uso di due strumenti di cui Murnau non poteva disporre, colore e sonoro. Quattro, è più esplicita la relazione tra vampirismo e sessualità. Cinque, viene messa in risalto la solitudine e la vulnerabilità del vampiro, ma anche l’inutilità del sacrificio rispetto a un male che continua malgrado tutto a proliferare, a riprodursi.

The Addiction (Ferrara, 1995) ★★★★☆

Ferrara pesca più dal modello herzoghiano per il suo ritratto dei vampiri newyorkesi, ma ancora di più alla sua esperienza di tossicodipendenza che diventa un’allegoria latente della condizione vampiresca. Già nei Nosferatu, la dipendenza dal sangue costituisce la ragion d’essere del vampiro e la sua grande debolezza. Ferrara restituisce al vampiro la sua debolezza, e dunque la sua umanità, trasformandolo nella metafora ambulante di una condizione che riguarda tutti gli esseri umani: la dipendenza – da sostanze, da abitudini, da convinzioni, da cose che si pensano o si possiedono, da sentimenti, da luoghi, da altre persone. What we are, is eternally with us: i nostri istinti, dunque i nostri vizi, sopravvivono alle morti dei singoli individui, seguitano a tormentare le generazioni come parassiti, come ospiti inquietanti, fino alla fine dei tempi.

Parimerito al quinto posto, non per valore assoluto quanto per la peculiarità di rappresentare interessanti variazioni sul tema, metterei lo spassoso mockumentary What We Do In The Shadows (Clement-Waititi) ★★★½☆☆ e il delirante Thirst (Park Chan-wook), ★★★☆☆ dove un prete-vampiro viene violentato dalla sua amante e accadono altre cose che accadono solo nei film coreani.

Visioni e impressioni di Marzo

Past Lives (C. Song)
Classico schema, lui e lei: lei parte, lui la ritrova anni dopo, ormai c’è l’altro. Ritenta la prossima vita, sarai più fortunato. Reincarnazione coreana di “Lost in Translation”. Senza Bill Murray.
Passato
★★☆☆☆

Estranei (A. Haigh)
Adam si innamora di Harry, ma vede spesso i genitori morti. Quando prova a presentarglielo, non va benissimo. Esposizioni multiple, solitudini singole.
Hauntologico
★★★½☆☆

Dune – Parte II (D. Villeneuve)
La storia la conosciamo tutti. Sarà per questo che Villeneuve si sforza soprattutto di magnificare scenografie, costumi, luci, colori. Tutto il resto manca. Un magnifico mausoleo al cinema, dove il corpo del cinema non c’è.
Arido
★★☆☆☆

Poor Films – Riflessioni su “Povere creature”, femminismo al cinema e complessità

Bella Baxter (Emma Stone) si getta nel Tamigi perché il marito possessivo, il Generale Blessington, l’ha messa incinta. Viene ripescata dal dottor Godwin, un dio padre con il volto scarificato di Willem Dafoe, che la resuscita trapiantando il cervello del feto nel corpo della madre. Quindi viene promessa sposa allo studente di medicina Max McCandles, ma scappa di nuovo insieme al dongiovanni Duncan Wedderburn. Si emancipa anche da lui – leggendo – e finisce a prostituirsi in un bordello parigino gestito da Madame von Kurtzroc (Hanna Schygulla), dove un’altra prostituta, Toinette (Suzy Bemba), la introduce al socialismo e all’amore saffico. Torna a casa dove decide finalmente di sposare Max, anzi lo abbandona all’altare per tornare dall’ex marito Generale Blessington, gli spara, trapianta il suo cervello sul corpo di una capra e torna a casa, dove dio/Godwin è morto, e può finalmente vivere felice insieme a Max, Toinette e il Generale-capra.

Ribellarsi a God (dio), esplorare il proprio desiderio, sfidare le convenzioni sociali, emanciparsi attraverso la lettura, diventare socialisti, ammazzare il patriarcato e vivere felici e contenti in una piccola comune (poliamorosa?). Lanthimos ci mette due ore e mezza per comunicare, nel 2024, il messaggio che una donna deve essere libera. Se fossimo nel ’68 sarebbe sovversivo. Peccato invece che i bersagli sono già, culturalmente parlando, corpi freddi, morti da un pezzo: il padre-padrone Godwin, il macho-dongiovanni Wedderburn, il marito-padrone Blessington, così come la moralità che incarnano, sono già stati decostruiti, fatti a pezzi da cinquant’anni di critica culturale.

Repetita iuvant, per carità. Ma qui Lanthimos sembra involuto, rimasto indietro anche rispetto a lui stesso quando in Kynodontas, tuttora il suo film più bello insieme a The Lobster, partiva dalla stessa base – una famiglia patriarcale iper-tossica – per trarne, lì sì, traiettorie imprevedibili, urticanti. Povere creature ha l’aspetto innocuo e un po’ kitsch di una boule à neige, continuamente agitata da una bufera di gag, forse un souvenir di quel cinema che Lanthimos avrebbe voluto fare, rivoluzionario, liberatorio – il casting di Hanna Schygulla è una spia in questo senso: lei che lavorò con Fassbinder, Ferreri, icona di un film fieramente indipendente, incendiario, è un sigillo semiotico di garanzia autoriale per un film che ne ha estremo bisogno.

Fassbinder e Schygulla

Povere creature sembra al contrario un film in ostaggio: un po’ dell’esibizionismo del suo autore, un po’ delle strategie produttive disneyiane (Searchlight), un po’ dei desideri della sua protagonista. Tutto il film ruota intorno all’interpretazione istrionica ed esilarante di Emma Stone (bravissima), è incurvato anche registicamente intorno al buco nero della sua curiosità, lei che smania per conoscere il mondo e farlo suo, ma con un tale solipsismo che i luoghi del film, le situazioni del film, gli incontri del film, diventano tutti poco più che strumenti di una cronaca di un’emancipazione annunciata, e gli altri personaggi poco più che eunuchi a guardia del serraglio delle sue stravaganze.

È qui che Povere creature perde forza, diventa banale malgrado la sua visualità barocca gridi l’opposto, malgrado la carta sfolgorante con cui Lanthimos ha avvolto il récit, sotto il tunnel chiaroscurale dei fisheye e le scenografie fassbinderiane, ultraposticce: nel farsi apostolo di un femminismo totalmente, inderogabilmente condivisibile, mainstream, un femminismo “cattolico” nel senso greco di katholikos, “universale”, insomma da catechesi, che non pone interrogativi ma è pieno di belle risposte. Le stesse vibes di Star Wars – Episodio IX, siamo in pieno stile Disney, pane amore & dollari: pochi rischi e tanti incassi.

“E dov’è il problema?” mi chiedono. Nessun problema, per carità, ci vuole anche quello. Questione di gusto, preferisco film che vivono di interrogativi piuttosto che di slogan, che indagano la complessità invece di evitarla. La seconda domanda è allora “Ma perché un messaggio semplice ed efficace deve per forza essere un male, soprattutto se è un messaggio giusto?” La risposta che mi viene in mente è “Perché un film non è una pubblicità progresso”, ma poi capisco che è proprio lì il punto, la chiave del successo di Povere creature, il fatto di essere standard nella sua eccentricità, parzialmente scremato dalle ambiguità, altamente digeribile. Operazione pienamente in linea con lo spirito dei tempi, infatti arriva pochi mesi dopo Barbie, altro film divertente, votato a un femminismo militante che compie un immane sforzo di worldbuilding attraverso scenografie, costumi, colori, inquadrature, sopra una sceneggiatura più vicina alle esigenze della didattica che a quelle della narrazione.

Didattica e narrazione però sono agli antipodi: la prima deve essere chiara, semplice, efficace, costruttiva, mentre la seconda rende al meglio quando è oscura, ambigua, complessa, imprevedibile. Abituarsi troppo a usare la prima può compromettere l’efficacia della seconda, che pure ha incarnato, proprio a Hollywood, l’istanza gloriosa e urgente di un femminismo radicale, profondo, in confezioni audiovisive raffinate. Tre esempi.

Numero uno: in Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015), quasi tutti i personaggi sono ibridati con protesi tecnologiche, tutori, apparecchi respiratori, armi, che rappresentano la disconnessione con l’ambiente naturale devastato da una crisi ecologica irreversibile. Furiosa (Charlize Theron), la vera protagonista del film, viene mostrata senza protesi nei suoi momenti più vulnerabili, come se soltanto la capacità di rinunciare alla tecnologia conferisse finalmente un aspetto umano. Il villain del film, Immortan Joe, non ci riesce, muore nel momento in cui Furiosa gli strappa la maschera del respiratore in una sequenza che diventa lo smascheramento simbolico della disumanità del capitalismo e delle sue politiche di sfruttamento indiscriminato, celate sotto la maschera della religione, della retorica familiare, patriarcale, militare, o semplicemente dell’abitudine. Contro il patriarcato di Immortan Joe, fondato sulla violenza e l’accumulo, Furiosa non guida soltanto un autoarticolato imbottito di esplosivi ma anche un modello sociale alternativo ispirato a caratteristiche materne, femminili, di cura e condivisione. Sotto il ritmo martellante dell’action, Fury Road propugna la riconsiderazione del rapporto tra società e natura secondo un’etica femminista e matriarcale,auspicando la conversione dei patriarcati belligeranti (i vari Trump, Putin, l’orrido Iran) a matriarcati sostenibili. Un modello realizzabile soltanto tramite dialogo, cooperazione e uguaglianza – come dimostrano i due protagonisti, Max e Furiosa.

Numero due: lo ricordano in pochi, ma è un vero gioiello Una squillo per l’ispettore Klute (in inglese soltanto Klute, Alan J. Pakula, 1971), se non altro perché la “squillo” Bree Daniels (Jane Fonda) è uno dei personaggi femminili meglio scritti nella storia del cinema, tra i più complessi e stratificati, così come il rapporto di alti e bassi che stabilisce con il taciturno ispettore Klute, un Donald Sutherland dagli occhi acquosi, allampanato, passivo, paziente. Alti e bassi anche in senso registico: Bree cerca sempre di dominare l’inquadratura, di sovrastare le situazioni per avere maggiore controllo come negli incontri con i clienti, poi è abituata a “sballarsi” (to get high), e in un momento di crisi sale le scale che la portano al club del suo ex-magnaccia, la musica grida “lift me up my desire”, sollevami più in alto del mio desiderio, che è esattamente il problema di Bree, l’incapacità di affrontare le proprie emozioni e l’abitudine a usare la sessualità per allontanarsi dagli altri, invece di avvicinarsi; mentre Klute si posiziona sempre in basso, dorme sotto il letto di lei, sul pavimento, aspetta paziente che tutto ciò che è in alto torni a terra, come il cinese seduto sulla riva del fiume, aspetta che passi il cadavere del nemico e che la soluzione del caso gli cada tra le mani, in una lenta e inesorabile caduta. Tutta la regia di Pakula è orientata a questa tensione metaforica degli spazi, che colora il film di una complessità latente, non immediatamente percepibile ma operativa, anche quando nulla sembra accadere. In tutto questo, la progressiva emancipazione di Bree dal loop di droghe e prostituzione, la sua autodeterminazione come donna-soggetto invece che come donna-oggetto non potrebbe avvenire senza l’ascolto della psicologa e quello di Klute, perché la definizione di sé e della propria libertà si articola sempre attraverso il rapporto con l’altro.

Numero tre: in Alien (Ridley Scott, 1979) l’astronave concepita dal designer HR Giger è un involucro organico, un grembo tecnologico che protegge gli astronauti fluttuando in un vuoto cosmico buio e minaccioso. Lo Xenomorfo, parassita che cresce dentro ai corpi degli ospiti e li squarta dall’interno, ingaggia un duello all’ultimo sangue con Ripley (Sigourney Weaver), unica superstite dell’equipaggio. L’orrore della maternità, l’ansia per la penetrazione, l’abietto, la rivendicazione del corpo e della sua integrità, sono presenti e pulsanti nel testo cinematografico, che a distanza di mezzo secolo ispira ancora nuove riflessioni.

Ecco, per me la cosa più fastidiosa di Povere creature è questo suo modo furbo di allacciarsi alla genealogia del femminismo cinematografico succhiandone le icone, le atmosfere, senza mai rischiare, senza proporre nulla di originale. Nudi integrali, omicidi, esperimenti lugubri e distorsioni grottesche a guardar bene non sono che una corazza spinata, sotto la quale si nasconde la polpa tenera e sguiccia del politicamente corretto. Che non ha mai un gran sapore.

Visioni e impressioni di Novembre

Dream Scenario (K. Borgli) ★★★☆☆

Killers of the Flower Moon (M. Scorsese) ★★½☆☆☆

The Killer (D. Fincher) ★★★☆☆

Napoleon (R. Scott) ★★½☆☆☆

Ascesa e caduta di un tiranno. Tanti colori, poche sfumature (classic Scott). Imperiale

C’è ancora domani (P. Cortellesi) ★★★☆☆

Viva il Neorealismo, viva le donne, viva la democrazia. Una paraculata (che funziona). Furbo

Il cielo brucia (C. Petzold) ★★★½☆☆

L’eterno duello tra empatia e intelletto, negli occhi di un giovane scrittore misantropo, tra gli incendi della Pomerania. Brucia tutto. Anche dentro. Caustico

Elenco immagini “NWR. La vertigine del fato”

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Killers of the Flower Moon – M. Scorsese

Anni ’20. Di ritorno dalla guerra, il veterano Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) fa visita allo zio, il ricco “King” William Hale (Robert De Niro), che insieme al nipote Byron (Scott Shepherd), fratello di Ernest, gestisce il potere a Osage County. In una Fairfax che ancora profuma di vecchio West, il mondo va al contrario: i nativi Osage sono ricchi, sotto le loro terre scorre il petrolio, mentre i bianchi lavorano come autisti, maggiordomi, barbieri, operai. King Hale lavora per rimettere un po’ di equilibrio nell’equazione favorendo matrimoni tra bianchi in miseria e ricche possidenti Osage, meglio se di salute cagionevole. Presto arriva il turno di Ernest, che si innamora di Mollie (Lily Gladstone), ricchissima ereditiera con madre anziana e varie sorelle che durano meno di una noce di burro in padella.

Il disegno è chiaro fin da subito: lo zio cospira nell’ombra, il nipote obbedisce senza riflettere. Sia De Niro che DiCaprio si consegnano alla parte con due interpretazioni impeccabili, ma il secondo brilla di più nei panni inediti del veterano, una figura ormai archetipica del cinema USA. Il veterano è un soggetto alienato, senza ruolo in una società che lo respinge, lo emargina, segnato da cicatrici invisibili e dolori senza nome che lo tormentano nel sonno e nella veglia. Ne sono esempi il Joaquin Phoenix di The Master, l’Oscar Isaac di The Card Counter, così come il De Niro di Taxi Driver e The Irishman rimanendo in ambito Scorsese. Sono palpabili anche le suggestioni andersoniane, in particolare There Will Be Blood. Ma più di tutti, questo Di Caprio ricorda il Frank Sheeran del penultimo Scorsese – la stessa espressione bovina, la stessa cieca obbedienza – ma istupidito a livelli coeniani, un personaggio che pare uscito da Fargo o Buster Scruggs.

Sopra, Scorsese; sotto, PTA.

Coerente con questo ultimo filone della sua filmografia, Scorsese come un Livingstone esplora le sorgenti del male, che nascono in quel territorio di confine dove l’assenza dello stato non significa assenza di potere, e ne fa colare un largo, sinuoso affresco in cui le vite degli Osage, persona dopo persona, goccia a goccia, in un lento e inesorabile stillicidio si perdono senza sussulti, senza far rumore, come acqua che si mescola alla terra. Insomma è anche questo un film di mafia, sul potere che si crea in assenza di potere, quando uno stato è colpevolmente assente, e sulla dinamica che trasforma la crudeltà e la violenza da eccezioni in regole, da anomalie ad abitudini, o come in una celebre formula di Hannah Arendt, sulla banalità del male.

Rispetto ad Irishman, tutto costruito secondo un gioco di tensioni, frizioni, accelerazioni, ambizioni che trascinava i protagonisti su equilibri fragili come il ghiaccio, sempre sul punto di essere incrinati o rovesciati, in KotFM Scorsese rimuove ogni attrito al corso dilagante del male. Ernest è una pedina completamente passiva, inconsapevole, privo degli scatti di orgoglio, la lealtà e la freddezza di Sheeran, è la banalità incarnata, non più un soldato ma uno sturmtruppen del male. Passiva è Mollie, che dopo un accenno di lotta si abbandona per tutto il film alle cure velenose di Ernest; passivi gli Osage, che non fanno nulla; passivo lo stato, che interviene troppo tardi; passiva persino la colonna sonora, che lontana dall’esuberanza di Irishman si abbandona al riff liquido di Robbie Robertson. Tutte scelte studiate e consapevoli. Ma la domanda è: funzionano?

Altra immagine andersoniana.

Qui vengono i problemi del film. L’estenuante passività che marca la narrazione si fa sentire in queste tre ore e ventisei minuti dove i moventi sono chiari fin dal principio e gli sviluppi si conoscono in anticipo; anche perché, se pure riuscissimo a distrarci, ci penserebbero i dialoghi a spiegare nel dettaglio tutto quello che è appena successo e che sta per succedere. La maggiore novità formale di KotFM è proprio questa ridondanza, atipica per Scorsese, espressa non solo a livello verbale ma in varie sequenze che vìolano i più sacri princìpi della narrazione, dal principio di economia (less is more) al proverbiale show, don’t tell. Ad esempio il didascalico voice over di Mollie al matrimonio (bastavano le immagini), o la ricostruzione dell’omicidio di Anna, sia verbale che inscenata.

Per carità, è anche così che si firmano i capolavori: Rashomon di Kurosawa è costruito proprio sulla ripetizione dello stesso episodio secondo varie prospettive e vari resoconti, e il senso di mistero è portato avanti proprio dagli scarti e dalle incongruenze. Qui però non abbiamo né gli uni né gli altri, abbiamo una cronaca di morti annunciate, una lentissima anti-epica dalla vocazione anti-spettacolare, materia da serie più che da crime drama. La carenza di sfalsamenti prospettici si evince anche dalla focalizzazione, affidata unilateralmente a tre visi pallidi che rappresentano comunque uno sguardo che non appartiene agli Osage: il massone De Niro, il derelitto Di Caprio, e il mellifluo (bravissimo) Jesse Plemons che da quando compare si prende sulle spalle la focalizzazione e la porta avanti in solitario. Anche questa una scelta, ma siamo sicuri che sia giusta?

In un regista solitamente così abile a tratteggiare indimenticabili personaggi secondari (il Keitel pappone di Taxi Driver, la Teri Garr gelataia di After Hours, il Rickles-direttore di sala in Casinò, lo Steve Graham “Tony Pro” di Irishman) grandi assenti di KotFM sono proprio i personaggi secondari, soprattutto gli Osage, ridotti a poco più che comparse, macchiette. Macchietta l’ubriacone malinconico Henry Roan, macchietta l’ubriacona sbaraccona Anna Kyle, comparse le altre sorelle di Mollie, i capi della comunità e l’investigatore nativo americano di cui manco sappiamo il nome. Forse si voleva inquadrare gli Osage con lo sguardo dei loro carnefici – corpi inutili, passivi, meri depositari di risorse da sfruttare, poco più che futuri assassinati in attesa di un assassino – suscitando una reazione attiva tramite la loro insistita e inverosimile passività. Qui però si rasenta l’assurdo quando Mollie, ormai a conoscenza delle trame che le hanno sterminato la famiglia e logorato il corpo, abbraccia il marito senza mostrare un cenno di reazione, di risentimento, di rabbia – niente.

Questo grande niente è al centro del film. I personaggi, DiCaprio compreso, sono costantemente agiti da trame più profonde, che li fanno sparire nel flusso indolente della diegesi. Spariscono le loro motivazioni, le loro ambizioni, le loro relazioni, rimane soltanto l’intreccio con i suoi mille fili, saldamente attaccati ai personaggi – e chiaramente visibili. A dispetto degli ottimi De Niro, DiCaprio e Plemons, dispiace soprattuto per il ruolo sacrificato di Lily Gladstone, che avrebbe avuto talento e spazio a sufficienza per brillare ed è invece ridotta al vetero-stereotipo della donna da salvare.

L’impressione è quella di un film che, per pudore e deferenza, si sia tenuto in qualche modo a distanza dalla storia che racconta. Lo indicano varie tracce sparse lungo il percorso: diverse inquadrature dall’alto, grandangolari; il meta-finale in cui il regista sale sul palco, mima un radio-show e ci racconta com’è andata; la cornice esotica che racchiude il film, aperto con un calumet della pace e concluso con una tipica danza circolare nell’ennesima inquadratura dall’alto, plongée.

Il titolo, Killers of the Flower Moon, si riferisce alla luna piena di maggio in Oklahoma, la “luna dei fiori” nel calendario Osage, perché coincide con la fioritura di piccoli boccioli stagionali che vengono presto soffocati da altre piante. Una chiara analogia alla strage silenziosa compiuta dai bianchi, ma possiamo anche interpretarla come la definitiva gemmazione di un nuovo approdo della filmografia scorsesiana, uno stile già percepibile in The Wolf of Wall Street e sviluppato nei (per me molto più convincenti) Silence e The Irishman. Insomma, ogni stagione dà il suo frutto. Non è detto che ci debba piacere.

★★★☆☆

Oppenheimer – C. Nolan

Trinity, pochi secondi dopo la detonazione

La bomba è il vero Buddha occidentale: dispositivo distaccato, perfetto, sovrano. Immobile, riposa nei suoi silos, realtà pura e pura possibilità. Quintessenza delle energie cosmiche e della partecipazione umana a esse, prestazione suprema dell’uomo e sua distruttrice, trionfo di razionalità tecnica e suo superamento paranoetico.

P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica

In Oppenheimer la storia viene raccontata come fosse fantascienza. Non quella interstellare di Lucas e Star Trek, ma quella che rovescia la scienza nel suo lato oscuro. E cosa c’è di più oscuro della pulsione di morte, che l’umanità ha condensato nella bomba nucleare? L’ultima opera di Nolan suona cupa, come una profezia al contrario. La nube di Trinity assomiglia a quella purpurea di Matthew Shiel. Ma qui, più che dalle parti di Kubrick, siamo da quelle di Jules Verne: immagini visionarie e linguaggio sciatto.

Atto I

Il primo atto racconta per affastellamento più che concatenazione. Intorno al nucleo visuale del film, il volto allampanato e acquoso di Cillian Murphy, orbita un gran numero di frammenti biografici, incredibilmente significativi e incredibilmente brevi (apertura e rottura di relazioni sentimentali, professionali, periodi e decisioni cruciali).
Il montaggio forsennato dovrebbe compensare l’assenza di concatenazioni narrative e chiare finalità, tratti distintivi dello storytelling hollywoodiano. Ma la ridda convulsa di tempi, spazi, volti ed eventi più che a un viaggio nella fisica dei quanti assomiglia a una valigia fatta in fretta e furia nell’ansia di una partenza imminente, quando si ficca tutto dentro alla rinfusa per sospetto e timore che possa servire.
In tutto questo c’è un’overdose musicale, come se Nolan, conscio del mosaico frammentario e frenetico che ha costruito, volesse tenerlo insieme con una onnipresente pasta sonora. Che non basta ad arginare le derive naif, talvolta cringe – una scena su tutte, Florence Pugh a cavalcioni nuda su Cillian Murphy che gli fa tradurre il sanscrito.

Atto II

La parte più solida del film è quella più convincente. Sia dal punto di vista narrativo, con vari duelli che trainano il racconto (Murphy-Damon, Murphy-Blunt, Murphy-Pugh, Murphy-Safdie…); sia dal punto di vista estetico, con la costruzione visionaria di Los Alamos e Hoyte van Hoytema che finalmente esce dalle aule – di università, di tribunale – e compie il solito miracolo. L’ocra del deserto e il buio della notte lasciano il posto al bianco abbacinante della bomba. La nube esplode in cielo come un bianco orgasmo che partorisce la distruzione del mondo, mentre Oppenheimer dà sfogo alla propria fissazione scopica attraverso uno spioncino.
Come Semele, folgorata dalla bellezza bruciante del divino, Oppenheimer scorge il viso della morte e se ne innamora, dedicandole il sonetto di John Donne che dà il nome a Trinity:

“Sfascia il mio cuore, Dio in tre persone, per ora
tu solo bussi, sospiri, risplendi, e tenti di emendare.
Affinché io sorga e regga, tu rovesciami e tendi la tua forza
a spezzarmi, ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo”.

Atto III

Il terzo atto è un lungo downer. Un courtroom drama senza courtroom, perché non c’è processo, e senza drama, perché non coinvolge. I dialoghi sono prolissi, spuntati. I colpi di scena bussano timidi, come ospiti discreti, e per di più attesi. Dopo uno storyline che ha come oggetto principale la guerra e l’atomica, la trama ora gira intorno al mancato rinnovo di un permesso di sicurezza. E gira intorno a Strauss, figura troppo sbiadita per poter funzionare come antagonista solido.
Comincia, in un clima più retorico che storico, la sfilata dei cliché – il politico intrallazzone (Strauss), l’uomo di potere disumano (Truman), l’amico traditore (Teller), la moglie tradita ma inesorabilmente, inossidabilmente fedele (Kitty) che pronuncia nel finale la parola che aleggiava da almeno un’ora, la più adatta per comprendere di quale luce Nolan voglia illuminare il fisico newyorkese: “martire”.

ritrAtto

Come giustamente scrive Ippolito, “Nolan ha ironicamente osservato che, nonostante i tre film su Batman, Oppenheimer è di gran lunga il suo personaggio più ambiguo”. L’eredità storica di Oppenheimer è essa stessa ambigua, un’ambiguità che il film si sforza palesemente di risolvere malgrado si legga ovunque che il ritratto è equilibrato, che Nolan non ha voluto sbilanciarsi.
Non sono d’accordo.
Oppenheimer lasciò realmente una mela avvelenata sulla cattedra del suo supervisore, ma non tornò mai a toglierla come si vede nel film. A seguito di forti pressioni della famiglia, non venne espulso né incriminato, ma fu obbligato a seguire un percorso psichiatrico. Durante la guerra discusse con Fermi la possibilità di sconfiggere i tedeschi tramite un avvelenamento di massa. La rimozione o manipolazione di questi dettagli lo rende non solo meno interessante, ma anche più stereotipico nei panni del genio incompreso.
In più, Nolan lo incastona fra due icone novecentesche, Einstein che lo elegge come erede scientifico e Kennedy che ne risana definitivamente l’eredità politica. Lo accosta al martirio. A dispetto del mancato rinnovo del permesso di sicurezza e del clima politico sfavorevole, la parola “martirio” sembra inopportuna per un uomo che ha lavorato ad armi di distruzione di massa, influenzato per anni le decisioni militari, politiche, scientifiche di una superpotenza e diretto fino alla morte l’IAS di Princeton. Se fosse nato in Germania e avesse lavorato per Hitler, potremmo mai parlare di Oppenheimer come un martire?

prospAttiva

A meno che “martirio” non si intenda nel senso originale, etimologico, di testimonianza. Di che cosa? Del collasso dell’ideale di oggettività, che rende vano ogni tentativo di identificare verità e valori universali. Tanto nella scienza sempre meno sperimentale del cosmo quantico, quanto nella storia novecentesca, dove il profilo dell’eroe lascia fatalmente il posto all’umano, troppo umano Oppenheimer, agitato dalla spinta prometeica che contende agli dei le leggi che regolano la creazione del cosmo, e fatalmente la sua distruzione. Nolan ne fa un’icona del conflitto che agita la coscienza umana, un Prometeo incatenato ai propri dubbi, con l’aquila del rimorso occupata a rodergli il fegato.

Prometeo, l’uomo venuto a spogliare la natura dei suoi veli, a scandagliarne il corpo nudo con sguardo impudico, a dissezionarla per coglierne i segreti e condividerli. La parabola di Oppenheimer sancisce anche dal punto di vista simbolico l’avvento del mondo quantistico, un mondo in cui l’osservatore non è mai neutro ma sempre irrimediabilmente contaminato da un mondo che pare osservarlo di rimando. Lo sguardo non si dà più come finestra oggettiva. Lo sguardo è un ponte percorribile in entrambi i sensi e nel momento in cui Oppenheimer spacca l’atomo anche Oppenheimer sembra scindersi, frammentato in una serie di allucinazioni visive, uditive, cromatiche.

misfAtto

“Non è un caso”, scrive Berardini, “se in questi ultimi anni tre artisti di grande calibro (Lynch, McCarthy e appunto Nolan) hanno sentito il bisogno di confrontarsi con Trinity e la nascita del mondo atomico, rivelando in esso un punto di discontinuità sostanziale, uno scarto tanto sul piano politico che morale, fisico e metafisico.”
Il riferimento è al famigerato Episodio 8 di Twin Peaks 3, quando la detonazione di Trinity libera un coacervo di entità ectoplasmatiche. Falegnami dal viso bruciato terrorizzano il New Mexico ripetendo una strana litania; e un uovo si schiude, liberando un parassita insettoide che trova rifugio nella bocca di un’adolescente. Se TP3 fosse una Bibbia, episodio 8 sarebbe il racconto del peccato originale. La colpa che contamina irrimediabilmente, che si fa spazio tra le labbra degli innocenti e si annida nel loro stomaco, invisibile e incurabile come una malattia senza nome.
Questo in Twin Peaks. E Nolan?
Una sequenza mostra Oppenheimer che distoglie lo sguardo dagli orrori della bomba, proiettati in una sala cinema. La camera è fissa sulla reazione del protagonista. Non inquadra mai Hiroshima, Nagasaki, i cadaveri bruciati, i vivi avvelenati, mutilati, sterilizzati, scarciofati dalle radiazioni. Siamo lontani da Lynch. Pare quasi che il film stesso distolga lo sguardo davanti al bianco abbacinante della bomba, il bianco della colpa. Non vediamo mai l’effetto della bomba sui civili ma solo sulla coscienza di Oppenheimer. A questo sembra ridursi l’intero film, un discorso fatto dalla coscienza, per la coscienza, la coscienza di Oppenheimer e degli americani, forse dell’intero Occidente, una coscienza tormentata che chiede perdono, che però se lo concede da sé, senza mai relazionarsi con le vittime, parlando solo con sé stessa, facendo parlare le proprie contraddizioni – l’etica e la tecnica, l’impulso a conoscere e quello ad uccidere. Conclude Berardini inquadrando la domanda fondamentale, “Già The Prestige era la storia di inventori al limite dell’etica, ma ancor di più qui Nolan si impossessa delle forme del biopic scientifico complicandone il segno morale. Oppenheimer è carnefice o martire?” Peccato che il film, oltre a porre la domanda, pare volerci dare anche la risposta.

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Grossolano come documento storico e farraginoso nei suoi aspetti finzionali, Oppenheimer invece funziona benissimo come autoritratto. Scrive Dario Denta, Nolan è un “grande tecnico con una propensione poco teorica” e cade spesso nella tentazione di ricorrere a spiegoni magniloquenti, se non puri deliri come la “quarta dimensione dell’amore” di Interstellar.
Facile presumere che si sia identificato con Oppenheimer, fisico poco portato alla teoresi e all’astrazione ma molto versato nell’ambito pratico, organizzativo. Analogamente, il miglior cinema di Nolan è un cinema prestigiatorio, che trova la sua ragion d’essere nella perfetta esecuzione tecnica del trucco.
Il pubblico, qualsiasi pubblico, aspira a essere ingannato, irretito dall’intreccio, illuso dai fantasmi che sfilano sullo schermo. Il trucco, qualsiasi trucco, perde d’incanto quando lo si spiega. Di incanto il suo cinema ne ha perso parecchio, da quando alle smancerie di Interstellar si sono aggiunti la retorica di Dunkirk, i garbugli di Tenet, le aule di Oppenheimer.
Lo ritroviamo intatto, l’incanto, nel segmento centrale. Quando regista e personaggio, uniti dall’ossessione scopica, contemplano il sole bianco di Trinity che cancella, insieme al profilmico, il mondo che c’era prima.

★★½☆☆☆

Indiana Jones e il quadrante del destino – J. Mangold

Nel recente Zeitgeist Nostalgia (John Hunt Publishing), il sociologo Alessandro Gandini riconosce la nostalgia come il sentimento del nostro tempo, rispetto a un’epoca – quella che va dal dopoguerra agli anni ’90 – segnata invece da entusiasmo e fiducia verso il neoliberismo americano, un modello che prometteva crescita e benessere a tempo indeterminato. A vedere Indiana Jones e il quadrante del destino (Indiana Jones and the Dial of Destiny – di qui in poi DoD) verrebbe da dargli retta.

Difatti, la trilogia originaria più che sul sentimento della nostalgia era costruita sulla fascinazione per l’esotico, luoghi e culture lontane nel tempo e nello spazio. La saga IJ fondeva la storia contemporanea insieme a ciclo arturiano, pensiero magico, stilemi western e mitologie assortite, per un risultato in molti aspetti analogo alla saga di Star Wars (che unisce ad esempio medicina cinese, archetipi della fiaba ed estetica giapponese). L’ossessione di Indiana Jones per custodire la storia (“Dovrebbe stare in un museo!”) tradisce soprattutto l’ossessione di volerla scrivere, un tratto inconfondibile della politica statunitense.

Le scorribande trionfalistiche dell’archeologo-avventuriero segnalavano allora, più ancora di un afflato nostalgico, una celebrazione del dominio e del pensiero americano, che da sempre accompagna al potere militare una irresistibile retorica libertaria. Il fascino di Indiana riflette i pregi del modello americano, un predominio sia muscolare che culturale. E i suoi viaggi in mezzo mondo per amore della storia rivelano che gli Usa sono innamorati soprattutto della storia che hanno scritto, e più in generale della loro abilità di scriverla. Non a caso i nemici storici, Reich e URSS, figurano in quattro episodi su cinque. Perlomeno, quelli sconfitti: Indiana Jones non è mai stato in Vietnam e Afghanistan…

Se la trilogia originale esprime quindi l’ansia che i meriti storici degli USA (leggi: vittoria sul nazifascismo e liberazione degli oppressi) non vengano riconosciuti, e dichiara fiducia incondizionata nel neoliberismo quale mezzo per preservare l’eredità storica e simbolica del dominio statunitense, questo ultimo capitolo si pone nel segno di una marcata discontinuità con tutti i predecessori. Non tanto per il racconto che sviluppa – Indy è sempre Indy – ma per le premesse implicite di questo racconto.

Idolo di gioventù: il sacerdote Mola Ram (Amrish Puri).

In DoD scopriamo che il matrimonio è fallito e la dinastia non sopravvive. Indy Jr. è morto in Vietnam – e non ne sentiremo la mancanza, visto che il personaggio di LaBoeuf aveva meno personalità del chiodo di pelle che indossava. Il film di Mangold presenta un tipico montaggio in continuità intensificata e una sceneggiatura solida, in cui il serrato concatenamento di azione/reazione lega personaggi ben scritti, classicamente hollywoodiani; spiccano la manigolda Phoebe Waller-Bridge, una sorta di Han Solo al femminile, e Mads Mikkelsen, come al solito impeccabile, che ci regala uno dei villain più indimenticabili di tutta la saga, dietro soltanto al sacerdote Mola Ram.

Proprio una battuta di Mikkelsen è la prima spia che qualcosa non va. Ex-nazista mai pentito, interroga in un hotel di NY un cameriere afroamericano:

Did you fight?

Yes, sir.

And, are you enjoying your victory?

La battuta coglie nel segno, il cameriere si ritira in silenzio. La vittoria contro il nazifascismo e il trionfo del modello liberista non hanno risolto le inuguaglianze, non tutti possono sognare il sogno americano. Un secondo indizio è una battuta di Waller-Bridge, “He steals, you steal from him, I steal from you – that’s capitalism!” Quando mai una battuta del genere poteva trovare cittadinanza nella trilogia originale? Lo stesso personaggio, battitrice d’asta nel mercato nero degli oggetti d’arte, esemplifica alla perfezione la critica di Deleuze-Guattari al capitalismo deterritorializzato che crea profitto e disuguaglianze attraverso la gestione di flussi di denaro senza origine né meta.

Non soffre solo il neoliberismo, ma anche il profilo degli USA quali salvatori del mondo e dei valori occidentali. Mikkelsen vuole tornare indietro nel tempo e modificare il corso degli eventi per favorire la vittoria del Reich nazista. Questa trama, nell’epoca dei media-mondo e della post-verità, tradisce l’ansia che la storia e la visione tradizionale della storia vengano manipolate. Una visione, quella pro-USA, che rischia di sgretolarsi sotto le molteplici pressioni di interessi e punti di vista divergenti in un mondo sempre più frammentato, depauperato di ogni collante ideologico.

Terzo e ultimo punto, DoD esprime anche sfiducia verso il progresso scientifico-tecnologico, altro sintomo (secondo Gandini) tipico della nostra epoca in quanto effetto della disillusione verso l’ideologia neoliberista. Nella trilogia originaria persisteva la fiducia verso un ideale umanista e sovrumano di giustizia, riportato di volta in volta sotto la bandiera di un sincretismo religioso-paranormale – Mosè, Shiva, il mito del Graal. Qui per la prima volta di paranormale non c’è nulla: tutto (pseudo)scientifico, da Archimede alla fisica dei quanti, con la differenza che il quadrante del destino è a tutti gli effetti una trappola, un corridoio temporale verso un tempo precario e pericoloso – come il nostro.

Un’ultimissima riflessione (polemica) la ispira il fatto che, se non si considera Il tempio maledetto, tutti i nemici di Indy avrebbero finito per battersi da soli anche senza il suo intervento – i nazisti bruciati dall’arca, avvelenati dal Graal, ingannati dal quadrante, e i sovietici polverizzati dagli alieni. Viene quasi il sospetto che valga anche per gli USA e i loro assidui e traumatici interventi, ma qui la riflessione critica sconfina in quella politica.

Inconsapevolmente, DoD è un funerale collettivo ai miti del merito storico, della prosperità neoliberista e del progresso. E quando muore un mito lo si celebra con la sfilata nostalgica delle sue contraddizioni: ecco allora che mentre la trilogia originale esprimeva una nostalgia puramente contemplativa, nel senso che i fatti e le icone della storia vi erano rappresentati con immaginifico e rispettoso fervore, qui si dà piuttosto una nostalgia restaurativa, ovvero carica di un impulso dedito alla ristrutturazione di forme e strutture in disfacimento.

L’asta in un malfamato cafè di Tangeri rimanda a Casablanca (M. Curtiz), Marion a sé stessa (Alla ricerca dell’arca perduta), l’orologio del padre a Sean Connery, Sallah a Sallah (L’ultima crociata), il bambino-guerriero a Shorty (Il tempio maledetto), in una tappa finale che sa di addio e nel contempo di riepilogo, riavvolgendo la saga intorno a sé stessa come per lucidarla, forse per proteggerla, come farebbe Indiana Jones con una delle sue statuette. Anche la saga di Indiana Jones ormai è storia e non resta che custodirla nostalgicamente, perché la nostalgia in fondo non è che questo: il museo dei nostri sentimenti.

★★★☆☆