“Vorrei fare almeno una cosa buona in tutta la mia vita” grida Charlie fra le lacrime e ci sembra quasi di udire l’attore che lo interpreta, Brendan Fraser, la cui carriera dopo uno sfolgorante avvio è precipitata per problemi personali e molestie (subite).
Per questo ci si sente quasi in colpa ad accanirsi contro The Whale, ennesimo tassello di una filmografia, quella dell’ex-prodigio Darren Aronofsky, sempre più orientata verso un realismo tanto sfacciato e grossolano da configurarsi come una pornografia della miseria umana.
Qui la fonte è l’omonima pièce di Samuel Hunter, la meta-fonte il Moby Dick di Melville, libro triste perché “Achab pensa che la sua vita diventerà migliore se uccide la balena. Ma la balena non ha emozioni.” L’analogia, mica tanto sottile (di sottile c’è ben poco nel film), sovrappone la balena al protagonista obeso.
Tutti se la prendono con lui pensando che non abbia emozioni, eppure è un sensibile insegnante di lettere, con qualche colpa familiare sulle spalle, che non si riscatterà tramite la religione (Thomas), né l’amicizia (Liz), ma un drammatico sacrificio.
Lo stesso schema di The Wrestler, altro film che scrittura un attore decaduto in cerca di riscatto (Mickey Rourke). La dimensione metatestuale è insomma viva e vivace, e pungola lo spettatore sull’introspezione come esercizio maieutico (“scrivete cose vere!”) e sul senso di disgusto spontaneo verso la (?) grassofobia.
Ma tutto in The Whale è ripetitivo, angusto, morboso e schematico. Come la mente di Achab e la sua ossessione; come la stanza in cui vive Charlie, che ricorda la cambusa di una nave; come ormai la filmografia di Aronofksy, una via crucis di altrettanti Cristi inchiodati ai propri fallimenti ed esibiti con un piagnucoloso quanto inutile compiacimento.
Milleseicento e rotti, convento di Pescia. Le monache sono convinte che suor Benedetta veda davvero Gesù. Quando trovano una madonna a forma di dildo cambiano idea. Il Vaticano indaga. E s’incazza.
Classic Verhoeven: violenza grafica ed escursioni nel camp, compreso un Gesù con vagina (e perché no, visto che la madonna diventa un pene?). Gender fluidity e repressione sessuale, ma il focus è la critica della religione in quanto discorso immaginario che materializza dinamiche di potere concrete.
Verhoeven riprende i suoi Il quarto uomo e Flesh+Blood, ma anche I diavoli (Ken Russell) e Gostanza da Libbiano (Paolo Benvenuti). Più della protagonista Virginie Efira, brilla la santa Trinità di Daphne Patakia (Kynodontas), Lambert Wilson (il Merovingio di Matrix) e un’esoterica Charlotte Rampling.
Uomo muore in strane circostanze, detective indaga la vedova, non è stata lei. La vedova si risposa, il marito ri-muore, il detective ri-indaga. Forse era stata lei. Mistery romance hitchcockiano tra un’immigrata cinese e un poliziotto coreano caduti in una spirale di passione e violenza.
Il paesaggio è più di un semplice sfondo, giocato su un’estetica (shanshui 山水), in cinese “paesaggio”, in senso letterale “monti 山e acque 水”; ma anche lui e lei, maschile e femminile, senso di colpa e desiderio, fermezza morale e ondate di passione.
Svariati virtuosismi in sede di regia, fra soggettive ansiogene e primi piani catturati attraverso lo schermo del telefono.
“Mai visto un tale vortice di cattivo gusto e pura magia”. La recensione Chazelle se la fa da solo, affidandola a una battuta di Margot Robbie, ed è anche abbastanza centrata.
Sequenze di grande cinema la festa in apertura, le riprese del kolossal medievale, la discesa nei budelli losangelini con un Tobey Maguire repellente. Il cattivo gusto invece non sta solo nell’umorismo scatologico – elefanti che svuotano le viscere sui galoppini, attrici che urinano, si ingozzano, vomitano – quanto nel perseguimento consapevole di una “poetica dell’eccesso e dell’incontinenza” (Gandini, Cineforum) che si estende a una ricostruzione patinata e platealmente fasulla, disinteressata al recupero realistico di arredi, acconciature, scenografie…
Insomma un postmoderno al quadrato, che in vari punti si esprime con il linguaggio frammentario e accelerato dei videoclip. Chazelle, di formazione musicista, ama far trainare il racconto dalla colonna sonora, innescando l’azione in J-cut e tenendola viva e vibrante attraverso un montaggio sincopato che raggiunge il suo acme nel pirotecnico finale, un’esibizione (auto)compiaciuta di estro compositivo e cultura cinefila.
Sopra Caligola, sotto Babylon
Questa cultura cinefila, oltre alla fonte d’ispirazione Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, saccheggia tanti, troppi film per elencarli tutti, ma vale la pena menzionarne alcuni: i personaggi di C’era una volta a Hollywood (Tarantino), le scenografie di Caligola (Brass) e I vitelloni (Fellini), le tracking shots di Paul Thomas Anderson, i piani sequenza di Quei bravi ragazzi (Scorsese) e le icone di Singin’ in the Rain (Kelly-Donen), innestandosi in quel filone epico dedicato agli anni d’oro di Hollywood ormai piuttosto nutrito, anche se non esattamente popolare (vedi alla voce Incassi), che solo negli ultimi anni ha visto The Fabelmans (Spielberg), Mank (Fincher), il succitato Tarantino, Blonde (Dominik)…
Funziona? Dipende da quanto si è disposti a scendere a patti con questa regia fracassona e ammiccante, con questo Chazelle che davvero (osserva Menarini) “non si capisce se ci fa ci è”. Qualunque cosa sia Chazelle c’è da sperare che continui a esserlo ancora per un po’, perché questa clamorosa, glamourosa commistione di kolossal e commedia malgrado tutto lascia un segno.
Quasi 1900. A un prete danese con la passione per la fotografia viene assegnata una parrocchia in Islanda. Parte controvoglia per un viaggio periglioso in cui l’amico interprete incontra una morte tragica. E forse è il più fortunato dei due.
In Godland la questione fotografica non è al centro, è letteralmente da tutte le parti, a partire dalla bizzarra scelta di formato 1.33: 1 che ricorda i dagherrotipi di fine Ottocento, poi la scelta di girare in pellicola 35mm e la potente cinematografia di von Hausswolff che ritrae un’Islanda bella e terribile, incompleta come l’Amazzonia di Aguirre (Herzog), una terra in cui pare che il Creatore debba tornare un giorno per finire la creazione.
E come in Herzog, al cuore dell’opera pulsa la lotta impari tra uomo e natura. E ancora la critica postcoloniale che si articola nel rapporto gerarchico tra islandese, lingua natia/naturale, e danese, lingua colonizzante/civile. E ancora una satira intrisa di humor nero alla Lanthimos che graffia l’ipocrisia dei costumi, soprattutto religiosi.
Insomma un film con tre o quattro cuori, come un calamaro, ma altrettanto sguiscio, privo di spina dorsale, che annida in ogni genere senza abitarne nessuno, gettando fumo, anzi inchiostro, in faccia allo spettatore per almeno 40 minuti più del necessario. E come tanti calamari finisce, a dispetto della sua innegabile intelligenza e ammaliante mostruosità, arrostito.
Traduttrice vedova con figlioletta a carico cerca ricovero per accudire il padre (anziano filosofo afflitto da malattia neurodegenerativa) e trova insperato nuovo amore (vecchio amico cosmo-chimico) che però è sposato.
In questa narrazione di stampo rohmeriano le tensioni sentimentali, familiari, sociali, intellettuali, si aprono come tante parentesi lasciate in sospeso, attraversate dall’espressività straordinaria di Léa Seydoux. Il sospetto è che senza di lei, il film avrebbe avuto ben poco da mostrare e ancor meno da dire: mentre il montaggio sminuzza il racconto in piccoli frammenti muti, Hansen-Love ci regala dialoghi indimenticabili come “Ti amo, ma è complicato” o “Signora Kingsler, abbiamo sentito tanto parlare di lei”.
Forse timorosa di non farsi capire, chiude con una bella cartolina finale da Montmartre che sarebbe perfetta anche per una pubblicità dei Panciok. Magari sarà pure stato “Un bel mattino”. “Un bel film” proprio no.
I miei due film preferiti del 2022 sono, anche se in maniera diversa, due meditazioni sulla fragilità della vita umana. Il crudelissimo Vortex di Gaspar Noé (★★★★☆) si iscrive in una filmografia già pesantemente marcata dai segni della morte, della violenza, dell’orrore di esistere. Si pensi alla sequenza dello stupro in Irréversible e alle atmosfere onirico-brutali di Enter The Void, in cui esperienze extra-corporee e promiscuità sessuale si intrecciano in un autentico poema post-mortem dedicato alla condizione umana.
Noé è un cineasta fortemente legato al concetto di crudeltà (cruauté) così come la intendeva Artaud: non banalmente una rappresentazione della crudeltà, ma uno “spettacolo cifrato” destinato a manifestare ciò che nella vita stessa si dà come irrappresentabile – la sofferenza, la follia, il sogno, la malattia, la morte. Il luogo della messinscena, scrive Artaud, “è una specie di luogo unico, senza chiusure né barriere, che diverrà il teatro stesso dell’azione”, dove “una comunicazione diretta sarà stabilita tra lo spettatore e lo spettacolo, tra l’attore e lo spettatore”.
Da sempre Noé tende il linguaggio cinematografico alla sua estremizzazione, fino alla rottura del senso, all’afasia totale. Attraverso colore, montaggio, colonna sonora, movimenti di camera e strategie narrative, lancia un assalto sinestetico verso lo spettatore; la poetica di Noé sta al cinema come un gatto sta al suo sacco, dal quale cerca rabbiosamente e disperatamente una via di fuga. E in questa fuga – dai limiti convenzionali del linguaggio, verso una rappresentazione dell’irrappresentabile – trascina il pubblico in un luogo senza chiusure né barriere, luogo di una comunicazione privilegiata su ciò che per natura non si può comunicare e per questo, appunto, crudele.
Vortex, storia di una coppia di anziani che scivola lentamente verso la follia e la morte, è forse il film più umano di Noé, quello più intriso di una impassibile e palpabile pietas per i personaggi: lei (Françoise Lebrun), grandissima attrice d’antan e lui (Dario Argento), grande regista d’altri tempi (che non sa recitare). Coppia perfettamente complementare insomma, che Noé riprende attraverso uno split-screen sempre più marcato e profondo, come a sottolineare l’abisso incolmabile che la follia, la progressiva perdita dell’identità, scava a poco a poco nella quotidianità delle nostre case, delle nostre famiglie – e qui torna ancora Artaud a ribadirci che “Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. […] Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita, come qualsiasi avvenimento prodotto dalle circostanze. Con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita invece di separarcene”.
Più trasognato e meno crudele è Memoria di Apichatpong Weerasethakul (★★★★☆), ma non per questo meno efficace o meno bello. Jessica (Tilda Swinton), inglese che vive in Colombia, si desta di notte per un boato misterioso che somiglia “a una palla di cemento che cade in un pozzo di metallo dentro al mare”. Non si riaddormenterà più. Incontra personaggi, a volte reali e a volte immaginari: archeologi che ripuliscono ossa umane, fonici, pescatori che muoiono e resuscitano a piacimento, fino alla sorpresa conclusiva (che non posso dire), ennesima manifestazione della massima alterità, dopo la morte e il tempo.
Una meditazione potente sull’identità e il suo dissolvimento, realizzata a partire dalla prospettiva liminale del sogno e (anche qui) della malattia; stati di coscienza alterati che (come in Tropical Malady e Cemetery of Splendour) se non altro hanno il merito di disseppellire le tracce di quello che pare un disagio profondo, o forse è semplicemente il sordo dolore dell’esistenza che si ode più nitido quando si ha la pazienza di ascoltarlo.
Christine Gordon
Tilda Swinton
Splendida non-prova per Tilda Swinton, sottratta a sé stessa fino a diventare il proprio avatar. D’altronde la fonte di ispirazione dichiarata era Christine Gordon in I Walked with a Zombie di Jacques Tourneur, non-morta grazie a un rituale vudù. Anche Memoria è in un certo senso un cinema della sopravvivenza, Nachleben direbbe Aby Warburg: ovvero postumo a sé stesso, sottratto alla vita ma in questo modo sottratto anche al tempo, che della vita è il più vorace predatore. Consegnato invece alle immagini senza tempo di un cinema che non racconta, non ricorda, sopravvive a sé stesso come reperto di sé stesso, mera archeologia di un passato immaginario.
Francia e Argentina protagoniste, come ai mondiali. Apre e chiude la classifica l’Argentina, con il crudelissimo Vortex di Noé, chiude il leggero ma sfizioso Finale a sorpresa. Nel mezzo la sorpresa Saint Omer, recensito per Ondacinema. Ho scritto anche di Nope e Un eroe, gli altri li commenterò a breve.
Flop dell’anno il celebrato Crimes of the future di Cronenberg, che mi ricorda Il giuoco delle perle di vetro di Hesse: scritto con le intenzioni di realizzare un capolavoro, ed è semplicemente la summa di lavori precedenti (che erano migliori). Un lavoro un po’ pedante, un po’ scalcagnato, intelligente in ogni pagina (inquadratura) ma con vari difetti di scrittura e coesione che ne minano il valore.
Classifica:
Red Rocket. Molti l’hanno trovato sottotono, per me è la commedia dell’anno.
1.Vortex (Gaspar Noé)
2.Memoria (Apichatpong Weerasethakul)
3.Licorice pizza (Paul Thomas Anderson)
4.Nope (Jordan Peele)
5.Saint Omer (Alice Diop)
6.Red Rocket (Sean Baker)
7.Esterno notte (Marco Bellocchio)
8.The Fabelmans (Steven Spielberg)
9.Un eroe (Asgar Fahradi)
10.Finale a sorpresa (Gastón Duprat, Mariano Cohn)
Top di categoria:
Van Hoytema non delude in Nope.
Miglior regia…Gaspar Noé (Vortex)
Miglior attore…Simon Rex (Red Rocket)
Miglior attrice…Tilda Swinton (Memoria)
Miglior sceneggiatura…Alice Diop, Amrita David, Marie NDiaye (Saint Omer)
Oltre all’uscita del mio volume su Winding Refn edito da Falsopiano, che se non altro è da acquistare per la bellissima copertina (ma è anche molto funzionale se avete una gamba del tavolo più corta), segnalo alcune recenti visioni.
Bones and All, L. Guadagnino ★★★½☆☆
Adolescente invitata a un pigiama party ha un languorino e sgranocchia il dito di un’amica.
Allora fugge e viaggiando on the road scopre persone con gli stessi gusti: un creep (un indimenticabile Rylance) e un fidanzatino (un dimenticabile Chalamet).
L’amore non sazia, ma spesso ci divora.
Succoso
Triangle of Sadness, R. Ostlund ★★☆☆☆
Comincia come una satira intellettuale e continua come “Selvaggi”.
Ezio Greggio almeno non c’è, ma la commedia, ammiccando con eccessiva disinvoltura al pubblico americano delle pop comedy, va comunque alla deriva.
Più che Triangle of Sadness è un triangolo delle Bermuda in cui Ostlund affonda il suo cinema.
Naufragico
The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft, W. Herzog ★★★½☆☆
Usando il footage pluridecennale di due vulcanologi uccisi da un’eruzione, Herzog compone il solito affresco su una natura fascinosa e terrificante sfidata da personaggi oltre i limiti.
Viene quasi il sospetto che da anni diriga sempre lo stesso film.
Marilyn scissa, frammentata dagli / negli sguardi del pubblico, non riconosce sé stessa nel brillio inesausto delle telecamere, degli schermi e degli specchi. Narciso che non trova sé stesso, e si cerca nell’eco mediatico. Trovandosi soltanto come simulacro, o icona. Uno dei temi di Blonde.
Lo dico subito: per me è no. Un film così estremo nei contenuti e nei toni narrativi, nella durata e nelle soluzioni visuali dopotutto non poteva che essere divisivo; qualcuno grida al capolavoro, qualcun altro se la ride. Come spesso accade, sto dalla parte degli scettici.
La Marilyn di Dominik, abbandonata dal padre e angariata da una madre schizofrenica, è un pendolo che oscilla tra un amante e l’altro lasciandosi ciclicamente sedurre, abbandonare, picchiare e violentare. La disperazione lascia presto il passo a una bambinesca indifferenza, in cui il viso dolce e lacrimoso di Ana de Armas trascolora in inquadrature distorte e perturbati che ricordano (anche nei temi) il cauchemardesco Mulholland Drive di David Lynch.
Ma proprio dal confronto con il film di Lynch, evocato dai difensori di Blonde come un santo patrono, emergono tutti i limiti e i difetti dell’opera. Protagonista di Mulholland Drive era una psiche femminile dilaniata tra innamoramento e sofferenza, erotismo e vendetta, tanto netta e autonoma nelle azioni quanto ambigua e sfumata nelle intenzioni. In Blonde invece non esiste ambiguità: dalle prime all’ultima inquadratura Marilyn si trasforma in un’icona di sofferenza tormentata e assediata dal desiderio maschile.
A cominciare dall’abbandono paterno e raccontando per accumulo le angherie di Chaplin/Robinson, Di Maggio, Wilder, la “violenza” di John Kennedy (leggenda) e l’aborto “imposto” da Bob Kennedy (leggenda pure quello), l’intero racconto ruota intorno alla intrinseca dipendenza di Marilyn da una figura maschile. Una dipendenza che ha carattere tossicomanico, perché allude a persistenti incapacità di autodeterminarsi e tendenze autodistruttive.
Insomma, Blonde non lascia alcuno spazio alla multidimensionalità della Marilyn reale, sposata a 16 anni per evitare di tornare in orfanotrofio, divorziata a 21 per proseguire la carriera cinematografica contro la volontà del marito, viaggiatrice senza marito in Corea a 25 anni e produttrice cinematografica a meno di 30. Ma il problema non è il rapporto tra film e realtà, quanto l’appiattimento del personaggio su un modello stereotipico e sessista: la Marilyn di Blonde è una bionda stupida e sexy bisognosa di essere salvata. La sequenza più grave in questo senso è l’apparizione di Arthur Miller che piomba in un teatro di prova come un principe azzurro, salvando Marilyn (?) che non ne aveva alcun bisogno visto che era all’apice della carriera e aveva appena vinto una battaglia legale con la 20th Century Fox (ma anche questo in Blonde non si vede).
Gli indizi di sessismo sono tanti: nel corso del film, Marilyn non parla quasi mai con altre donne; è traumatizzata fino alla morte dall’abbandono del padre, ma in compenso le violenze e la follia della madre non sembrano averla segnata più di tanto; assediata dagli amanti e ossessionata dagli aborti, come se la sua identità dovesse definirsi attraverso il sesso e la maternità – attributi stereotipici di una brava moglie americana. Nella sua impotenza e nel suo santo dolore, più che una donna viva e reale ricorda una passiva icona di pietà, come quelle Madonne trafitte da sette spade che stanno ai tabernacoli di una pieve.
Molto poco santo è invece l’uso strumentale che viene fatto del corpo nudo della de Armas. Per carità, una splendida visione; ma ostentare senza necessità un nudo femminile mentre Marilyn telefona, riposa o respira assomiglia molto più a una perpetrazione dell’uso oggettuale del corpo della donna, che alla sua sublimazione. L’unica vera, irrisolta ambiguità del film di Dominik è proprio questa: sembra replicare e condividere gli stessi sguardi, gli stessi vizi che si sforza di denunciare.
Ma non serve un giudizio morale per stroncare il film, radicale anche su un piano estetico: sensibilità e finezza mancano pure in fase di regia, dove la strategia coloristica, la molteplicità dei formati (ben quattro!), delle lenti, delle camere, delle tecniche di rappresentazione e di post-lavorazione digitale dell’immagine formano una torre di Babele, un monumento audiovisivo in cui l’accumulo pretestuoso e disordinato di tutte le potenzialità e tutti i linguaggi di cui dispone il cinema crea soltanto una volgare confusione, che emerge chiaramente in alcune sequenze pacchiane (feti che parlano, primi piani ai pompini), originali ed effettive quanto le pubblicità progresso sui pacchetti di sigarette.