Poor Films – Riflessioni su “Povere creature”, femminismo al cinema e complessità

Bella Baxter (Emma Stone) si getta nel Tamigi perché il marito possessivo, il Generale Blessington, l’ha messa incinta. Viene ripescata dal dottor Godwin, un dio padre con il volto scarificato di Willem Dafoe, che la resuscita trapiantando il cervello del feto nel corpo della madre. Quindi viene promessa sposa allo studente di medicina Max McCandles, ma scappa di nuovo insieme al dongiovanni Duncan Wedderburn. Si emancipa anche da lui – leggendo – e finisce a prostituirsi in un bordello parigino gestito da Madame von Kurtzroc (Hanna Schygulla), dove un’altra prostituta, Toinette (Suzy Bemba), la introduce al socialismo e all’amore saffico. Torna a casa dove decide finalmente di sposare Max, anzi lo abbandona all’altare per tornare dall’ex marito Generale Blessington, gli spara, trapianta il suo cervello sul corpo di una capra e torna a casa, dove dio/Godwin è morto, e può finalmente vivere felice insieme a Max, Toinette e il Generale-capra.

Ribellarsi a God (dio), esplorare il proprio desiderio, sfidare le convenzioni sociali, emanciparsi attraverso la lettura, diventare socialisti, ammazzare il patriarcato e vivere felici e contenti in una piccola comune (poliamorosa?). Lanthimos ci mette due ore e mezza per comunicare, nel 2024, il messaggio che una donna deve essere libera. Se fossimo nel ’68 sarebbe sovversivo. Peccato invece che i bersagli sono già, culturalmente parlando, corpi freddi, morti da un pezzo: il padre-padrone Godwin, il macho-dongiovanni Wedderburn, il marito-padrone Blessington, così come la moralità che incarnano, sono già stati decostruiti, fatti a pezzi da cinquant’anni di critica culturale.

Repetita iuvant, per carità. Ma qui Lanthimos sembra involuto, rimasto indietro anche rispetto a lui stesso quando in Kynodontas, tuttora il suo film più bello insieme a The Lobster, partiva dalla stessa base – una famiglia patriarcale iper-tossica – per trarne, lì sì, traiettorie imprevedibili, urticanti. Povere creature ha l’aspetto innocuo e un po’ kitsch di una boule à neige, continuamente agitata da una bufera di gag, forse un souvenir di quel cinema che Lanthimos avrebbe voluto fare, rivoluzionario, liberatorio – il casting di Hanna Schygulla è una spia in questo senso: lei che lavorò con Fassbinder, Ferreri, icona di un film fieramente indipendente, incendiario, è un sigillo semiotico di garanzia autoriale per un film che ne ha estremo bisogno.

Fassbinder e Schygulla

Povere creature sembra al contrario un film in ostaggio: un po’ dell’esibizionismo del suo autore, un po’ delle strategie produttive disneyiane (Searchlight), un po’ dei desideri della sua protagonista. Tutto il film ruota intorno all’interpretazione istrionica ed esilarante di Emma Stone (bravissima), è incurvato anche registicamente intorno al buco nero della sua curiosità, lei che smania per conoscere il mondo e farlo suo, ma con un tale solipsismo che i luoghi del film, le situazioni del film, gli incontri del film, diventano tutti poco più che strumenti di una cronaca di un’emancipazione annunciata, e gli altri personaggi poco più che eunuchi a guardia del serraglio delle sue stravaganze.

È qui che Povere creature perde forza, diventa banale malgrado la sua visualità barocca gridi l’opposto, malgrado la carta sfolgorante con cui Lanthimos ha avvolto il récit, sotto il tunnel chiaroscurale dei fisheye e le scenografie fassbinderiane, ultraposticce: nel farsi apostolo di un femminismo totalmente, inderogabilmente condivisibile, mainstream, un femminismo “cattolico” nel senso greco di katholikos, “universale”, insomma da catechesi, che non pone interrogativi ma è pieno di belle risposte. Le stesse vibes di Star Wars – Episodio IX, siamo in pieno stile Disney, pane amore & dollari: pochi rischi e tanti incassi.

“E dov’è il problema?” mi chiedono. Nessun problema, per carità, ci vuole anche quello. Questione di gusto, preferisco film che vivono di interrogativi piuttosto che di slogan, che indagano la complessità invece di evitarla. La seconda domanda è allora “Ma perché un messaggio semplice ed efficace deve per forza essere un male, soprattutto se è un messaggio giusto?” La risposta che mi viene in mente è “Perché un film non è una pubblicità progresso”, ma poi capisco che è proprio lì il punto, la chiave del successo di Povere creature, il fatto di essere standard nella sua eccentricità, parzialmente scremato dalle ambiguità, altamente digeribile. Operazione pienamente in linea con lo spirito dei tempi, infatti arriva pochi mesi dopo Barbie, altro film divertente, votato a un femminismo militante che compie un immane sforzo di worldbuilding attraverso scenografie, costumi, colori, inquadrature, sopra una sceneggiatura più vicina alle esigenze della didattica che a quelle della narrazione.

Didattica e narrazione però sono agli antipodi: la prima deve essere chiara, semplice, efficace, costruttiva, mentre la seconda rende al meglio quando è oscura, ambigua, complessa, imprevedibile. Abituarsi troppo a usare la prima può compromettere l’efficacia della seconda, che pure ha incarnato, proprio a Hollywood, l’istanza gloriosa e urgente di un femminismo radicale, profondo, in confezioni audiovisive raffinate. Tre esempi.

Numero uno: in Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015), quasi tutti i personaggi sono ibridati con protesi tecnologiche, tutori, apparecchi respiratori, armi, che rappresentano la disconnessione con l’ambiente naturale devastato da una crisi ecologica irreversibile. Furiosa (Charlize Theron), la vera protagonista del film, viene mostrata senza protesi nei suoi momenti più vulnerabili, come se soltanto la capacità di rinunciare alla tecnologia conferisse finalmente un aspetto umano. Il villain del film, Immortan Joe, non ci riesce, muore nel momento in cui Furiosa gli strappa la maschera del respiratore in una sequenza che diventa lo smascheramento simbolico della disumanità del capitalismo e delle sue politiche di sfruttamento indiscriminato, celate sotto la maschera della religione, della retorica familiare, patriarcale, militare, o semplicemente dell’abitudine. Contro il patriarcato di Immortan Joe, fondato sulla violenza e l’accumulo, Furiosa non guida soltanto un autoarticolato imbottito di esplosivi ma anche un modello sociale alternativo ispirato a caratteristiche materne, femminili, di cura e condivisione. Sotto il ritmo martellante dell’action, Fury Road propugna la riconsiderazione del rapporto tra società e natura secondo un’etica femminista e matriarcale,auspicando la conversione dei patriarcati belligeranti (i vari Trump, Putin, l’orrido Iran) a matriarcati sostenibili. Un modello realizzabile soltanto tramite dialogo, cooperazione e uguaglianza – come dimostrano i due protagonisti, Max e Furiosa.

Numero due: lo ricordano in pochi, ma è un vero gioiello Una squillo per l’ispettore Klute (in inglese soltanto Klute, Alan J. Pakula, 1971), se non altro perché la “squillo” Bree Daniels (Jane Fonda) è uno dei personaggi femminili meglio scritti nella storia del cinema, tra i più complessi e stratificati, così come il rapporto di alti e bassi che stabilisce con il taciturno ispettore Klute, un Donald Sutherland dagli occhi acquosi, allampanato, passivo, paziente. Alti e bassi anche in senso registico: Bree cerca sempre di dominare l’inquadratura, di sovrastare le situazioni per avere maggiore controllo come negli incontri con i clienti, poi è abituata a “sballarsi” (to get high), e in un momento di crisi sale le scale che la portano al club del suo ex-magnaccia, la musica grida “lift me up my desire”, sollevami più in alto del mio desiderio, che è esattamente il problema di Bree, l’incapacità di affrontare le proprie emozioni e l’abitudine a usare la sessualità per allontanarsi dagli altri, invece di avvicinarsi; mentre Klute si posiziona sempre in basso, dorme sotto il letto di lei, sul pavimento, aspetta paziente che tutto ciò che è in alto torni a terra, come il cinese seduto sulla riva del fiume, aspetta che passi il cadavere del nemico e che la soluzione del caso gli cada tra le mani, in una lenta e inesorabile caduta. Tutta la regia di Pakula è orientata a questa tensione metaforica degli spazi, che colora il film di una complessità latente, non immediatamente percepibile ma operativa, anche quando nulla sembra accadere. In tutto questo, la progressiva emancipazione di Bree dal loop di droghe e prostituzione, la sua autodeterminazione come donna-soggetto invece che come donna-oggetto non potrebbe avvenire senza l’ascolto della psicologa e quello di Klute, perché la definizione di sé e della propria libertà si articola sempre attraverso il rapporto con l’altro.

Numero tre: in Alien (Ridley Scott, 1979) l’astronave concepita dal designer HR Giger è un involucro organico, un grembo tecnologico che protegge gli astronauti fluttuando in un vuoto cosmico buio e minaccioso. Lo Xenomorfo, parassita che cresce dentro ai corpi degli ospiti e li squarta dall’interno, ingaggia un duello all’ultimo sangue con Ripley (Sigourney Weaver), unica superstite dell’equipaggio. L’orrore della maternità, l’ansia per la penetrazione, l’abietto, la rivendicazione del corpo e della sua integrità, sono presenti e pulsanti nel testo cinematografico, che a distanza di mezzo secolo ispira ancora nuove riflessioni.

Ecco, per me la cosa più fastidiosa di Povere creature è questo suo modo furbo di allacciarsi alla genealogia del femminismo cinematografico succhiandone le icone, le atmosfere, senza mai rischiare, senza proporre nulla di originale. Nudi integrali, omicidi, esperimenti lugubri e distorsioni grottesche a guardar bene non sono che una corazza spinata, sotto la quale si nasconde la polpa tenera e sguiccia del politicamente corretto. Che non ha mai un gran sapore.

Godland – H. Palmason

Quasi 1900. A un prete danese con la passione per la fotografia viene assegnata una parrocchia in Islanda. Parte controvoglia per un viaggio periglioso in cui l’amico interprete incontra una morte tragica. E forse è il più fortunato dei due.

In Godland la questione fotografica non è al centro, è letteralmente da tutte le parti, a partire dalla bizzarra scelta di formato 1.33: 1 che ricorda i dagherrotipi di fine Ottocento, poi la scelta di girare in pellicola 35mm e la potente cinematografia di von Hausswolff che ritrae un’Islanda bella e terribile, incompleta come l’Amazzonia di Aguirre (Herzog), una terra in cui pare che il Creatore debba tornare un giorno per finire la creazione.

E come in Herzog, al cuore dell’opera pulsa la lotta impari tra uomo e natura. E ancora la critica postcoloniale che si articola nel rapporto gerarchico tra islandese, lingua natia/naturale, e danese, lingua colonizzante/civile. E ancora una satira intrisa di humor nero alla Lanthimos che graffia l’ipocrisia dei costumi, soprattutto religiosi.

Insomma un film con tre o quattro cuori, come un calamaro, ma altrettanto sguiscio, privo di spina dorsale, che annida in ogni genere senza abitarne nessuno, gettando fumo, anzi inchiostro, in faccia allo spettatore per almeno 40 minuti più del necessario. E come tanti calamari finisce, a dispetto della sua innegabile intelligenza e ammaliante mostruosità, arrostito.

★★½☆☆☆

Nimic – Y. Lanthimos, 2020

Una frase banale innesca il tipico sberleffo à la Yorgos: la donna senza nome segue l’uomo senza nome fino a casa, lo imita, lo interpreta, gli ruba il posto.

Come ai tempi di “Alps“, i personaggi non seguono un paradigma identitario ma piuttosto identificativo, sublimando il desiderio mimetico in performance rituali. L’iterazione del primo piano sull’uovo bollito, sul timer, il ciondolio davanti ai fornelli, la colazione in piedi mostrano che il talento di esistere dipende unicamente dall’interpretazione. In questo senso “Nimic” rappresenta una variazione sul tema conduttore del cinema di Lanthimos, sia nell’ebbra austerità che accompagna il racconto, sia nelle soluzioni tecniche – come le panoramiche grandangolari che non supportano l’esigenza di oggettivazione e imprimono alla realtà severe distorsioni. Ma a distorcersi sono soprattutto gli individui nel loro incessante incontro con l’Altro (Autre), che per Lacan non è da intendersi come “altra persona” ma piuttosto come luogo – luogo, anche linguistico, di ciò che rimane escluso dal soggetto e ne costituisce una perturbante negazione – aperto, altro, avverso, inquieto, irriducibile.

★★★½☆☆

La recensione completa su Ondacinema.

La favorita – Y. Lanthimos, 2018

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Uno dei frequenti fisheye: Abigail spinge la regina.

In questa cinica commedia in costume, ambientata presso la corte di Anna Stuart (1707-1714), Lanthimos esplora con sguardo sardonico il rapporto taciuto tra potere e lussuria, mettendo a nudo le pulsioni istintuali che dirigono e determinano sottotraccia la lotta per il potere. Vi ritornano in serie le ossessioni privilegiate del regista greco – la danza, le similitudini con il regno animale, la sessualità impersonale e straniante -, trapiantate in un clima boccaccesco che pone in aperto e vivace contrasto le intenzioni dei personaggi con le rispettive maschere sociali.

L’estetica manierista serve lo scopo tramite maestosi grandangoli, ralenti capricciosi, e soprattutto i frequenti fisheye, che manifestano la distorsione del microcosmo cortigiano verso un centro gravitazionale invisibile ma ubiquo. La tipica ironia di Lanthimos colora il racconto di simboliche insolenze: prolifici conigli nel boudoir della regina, ministri litigiosi che scommettono su oche da corsa, mentre le due favorite esprimono la propria rapacità nell’esercizio di una sfida venatoria.

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Come in “Barry Lindon”, visitiamo un microcosmo di stampo epico, i cui equilibri si assegnano in base a duelli: lady Masham e lady Marlborough, Harley e Godolphin… Teatro della battaglia non è però la campagna inglese, quanto piuttosto il palazzo e le sue private stanze.

Per quanto gradevole, il gioco si sgonfia presto avvitandosi meccanicamente su un intreccio annunciato, soprattutto a causa della caratterizzazione troppo esplicita delle due favorite: una doveva apparire crudele e rivelarsi innamorata, l’altra l’opposto, ma la Stone è dal principio facilmente individuabile come manipolatrice, e ogni coinvolgimento empatico è scongiurato dalla semplicità con cui si individua il disegno soggiacente. L’impressione è che Lanthimos, così abituato ad abusare del testo narrativo per giocare con la meta-testualità, abbia peccato in questa occasione di didascalismo; troppo tell e poco show, insomma.

E per quanto riguarda la parte del tell, sono più artificiosi che divertenti i dialoghi sboccacciati, esibiti con troppa disinvoltura e troppa sciatta velleità per risultare mordenti come lo erano nel film che “La favorita” prende come modello per rappresentare il contrasto fra un Settecento aristocratico e le pulsioni animalesche che lo governano sottotraccia, ovvero il “Draughtsman’s Contract” di Greenaway (là, tardo Seicento).

“La favorita” non è il mio favorito tra i film di Lanthimos, ma è forse una normale tappa di assestamento nel percorso di un regista che sta cercando una graduale apertura della propria poetica a un pubblico più ampio.

★★★☆☆

Di Lanthimos, recensiti anche:

“Kynodontas”

“Alps”

“The Lobster”

“Il sacrificio del cervo sacro”

Il sacrificio del cervo sacro – Y.Lanthimos, 2017

Steven Murphy (Colin Farrell), stimato cardiologo, coltiva una strana amicizia con il sedicenne Martin (Barry Keoghan). Da quando Martin incontra la moglie di Steven, Anna (Nicole Kidman) e i figli Kim e Bob, accadono inquietanti e terribili disgrazie.

Commento

KOASD è una storia profondamente ellenica, nei toni e nei temi. Non tanto perché il regista è greco, quanto perché la fonte d’ispirazione dichiarata è il dramma euripideo “Ifigenia in Aulide”. Pertanto, la conoscenza dell’opera di Euripide agevolerà, e non poco, la comprensione del film.

“Ifigenia in Aulide” è ambientata poco prima della guerra di Troia. Una bonaccia innaturale  blocca la flotta achea nel porto di Aulide, in Boezia, e impedisce agli eroi di salpare. L’indovino Calcante dichiara che l’assenza di venti è causata dalla dea Artemide, offesa dal capo della spedizione Agamennone. L’indovino predice anche che soltanto il sacrificio di Ifigenia, figlia maggiore di Agamennone, placherà l’ira di Artemide. All’ultimo momento, la dea salva Ifigenia e invia al suo posto una cerva sacra.

Il tema focale del film è la colpa. Secondo un perfetto stilema della mentalità greco-arcaica, ogni colpa dev’essere espiata, ma non necessariamente dal colpevole. La colpa ricade sulla famiglia, sulla città o persino sulla stirpe di chi per primo violò le regole. Nel film, la colpa assume il volto innocente e inquietante di Martin, che ha il potere soprannaturale di far ammalare, uno dopo l’altro, i membri innocenti della famiglia di Steven.

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Martin (Keoghan). Il momento degli spaghetti è assai più inquietante di numerose scene “horror” viste di recente

Come nel dramma euripideo, la colpa è un principio astratto ma concreto, irrazionale e inesorabile, una minaccia che infesta l’orizzonte morale e narrativo dell’intera opera, sospesa sui personaggi come un cielo cupo. Come nel dramma euripideo, il responsabile rifiuta di riconoscersi tale; la colpa non scatena la vergogna, bensì l’ipocrisia.

La scienza e la razionalità cui Steven si appella nel momento del bisogno sono inutili. Vano è anche il ricorso alla violenza, contro una giustizia soprannaturale che è essa stessa suprema violenza, suprema indifferenza.

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Lo sguardo glaciale di Anna (Kidman).

Solo Anna ha il coraggio di incrociare l’algido sguardo di Martin – gli occhi del fato – nel tentativo di stabilire un dialogo, di trovare una soluzione, di riscattare le numerose e inconfessabili colpe del marito (negligenza, opportunismo, tradimento, probabile inclinazione alla pedofilia…). Dimostrando senso pratico, resilienza e intuito per i principi ineffabili e inesprimibili della vita, qualità proprie delle donne euripidee – e forse di tutte le donne.

Da un punto di vista formale, KOASD è un dramma dal ritmo compassato, ricco di riferimenti, che vira con garbo verso l’horror psicologico. Con poche regole essenziali e talentuoso rigore deduttivo, lo spettatore viene traghettato nel regno dell’assurdo senza traumi, senza scosse, come nella traversata di un fiume ampio e calmo.

I film di Lanthimos si spiegano da sé, come eleganti teoremi costruiti su pochi semplici assiomi. È la loro bellezza, poiché creano mondi immaginari ma credibili, paradossali e intriganti. È il loro limite, poiché le conclusioni sono già implicite nelle premesse, come esemplifica il dialogo fra Steven e Martin nella caffetteria dell’ospedale.

Tale struttura, ovviamente, è intrisa di black humour, unico elemento alieno rispetto all’originale dramma euripideo (e alla tragedia greca in genere), che tuttavia è un elemento ricorrente nella filmografia di Lanthimos (e nel cinema drammatico contemporaneo di qualità).

Menzione particolare per la colonna sonora, che oltre ad includere brani e autori eccellenti (Bach, Schubert, Ligeti…) dimostra una singolare e indipendente personalità. La maniera in cui le note sembrano commentare e talvolta opporsi agli sviluppi narrativi ricorda il ruolo del coro nelle tragedie greche. Sarà un caso?

★★★☆☆

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Alps – Y.Lanthimos, 2011

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Monte Rosa.

 

Be yourself; everyone else is already taken.

Oscar Wilde

“Alpi” è un collettivo di quattro persone che impersonano i defunti da poco scomparsi allo scopo di alleviare le sofferenze dei congiunti. Il film privilegia la prospettiva di un membro del gruppo, Monte Rosa (Angeliki Papoulia).

Commento

La seconda collaborazione con il diabolico Efthymis Filippou genera un film che integra il precedente Kynodontas formando una ideale bilogia, come confermato dal regista stesso. Se il primo narrava la fuga di un’adolescente (sempre la bravissima Angeliki Papoulia) da una realtà fittizia, Alps è invece la storia di una donna che in una realtà fittizia cerca la salvezza; come un Platone all’inverso, Monte Rosa percorre a ritroso l’ingresso della caverna.

Il tema principale di Alps è dunque l’identità. Utile e opportuno in questo senso il riferimento alla filosofia girardiana,* per la quale la costruzione dell’identità passa attraverso la pulsione mimetica del desiderio. Quando una giovane, bella e promettente tennista muore in un incidente d’auto, Monte Rosa si offre ai genitori di sostituirla. Dalla febbre mimetica consegue uno stato delirante, in cui l’identità della protagonista si sovrappone all’identità della defunta, causando l’inevitabile rigetto.

Evidentemente, un processo di costruzione dell’identità personale fondato sul desiderio mimetico conduce necessariamente al solipsismo e all’emarginazione. La reiezione di Monte Rosa (e più in generale, la solitudine dei vari personaggi) viene sottolineata dalla regia tramite vari espedienti, spesso enfatici. In luogo della classica dialettica di campo e controcampo, i dialoganti sono spesso ripresi di nuca. Battute fuori campo e sfocature acuiscono l’impressione di isolamento, già evocata dagli ambienti spogli, ampi e vuoti. La camera esibisce una prossemica impazzita, che alterna alla vacuità dei campi medi e lunghi una serie di primissimi piani e contre-plongée. Oltre alle inquadrature, anche la recitazione – Brecht docet – induce un forte senso di straniamento.

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La Ginnasta.

Alla follia generale si sottrae la giovane e impulsiva Ginnasta (Ariane Labed – l’unica di cui non sappiamo il nome in codice), con le cui performance si apre e chiude la pellicola. Un discorso a parte meriterebbe la danza, elemento ricorrente nella filmografia di Lanthimos. Per la filosofa Susanne Langer, la danza è innanzitutto presentazione spazio-ritmica della vita interiore, intesa come consapevole espressione simbolica.

Une danse n’est pas un symptôme du sentiment du danseur, mais une expression par celui qui la compose de sa connaissance des multiples sentiments.**

La danza della ginnasta è espressione della propria identità, in un film che intende l’identità come performance. Le interpretazioni del collettivo “Alps”, attraverso le quali si materializzano le identità perdute degli estinti, sono infatti null’altro che performance.

Non ha tutti i torti Mereghetti (Corriere della Sera, 04/09/11) quando definisce Alps un film autistico e auto-referenziale, intriso di misantropia. Tuttavia, l’allegoria è troppo esplicita perché la si possa prendere sul serio; siamo lontani (e per fortuna) dai foschi melodrammi alla von Trier. A rinfrescare l’atmosfera cupa e tesa di questo dramma bizantino giunge a sprazzi, come al solito, una pioggia di ironia.

★★★☆☆

*René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, 1961.

**Susanne Langer, “L’image dynamique” in Boissière e Duplay, Vie, Symbole, Mouvement, 2012.

Kynodontas – Y.Lanthimos, 2009

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Figlio, Figlia Maggiore e Figlia Minore vivono reclusi in completo isolamento dal resto della società civile. Padre e Madre li educano secondo principi rigorosi, evitando ogni potenziale cattiva influenza. Saranno pronti a uscire di casa quando cadrà loro il dente della maturità, ovvero il canino (in greco, kynodontas).

Commento

Al terzo lungometraggio, Lanthimos mostra già una poetica autoriale ben delineata e una completa padronanza del mezzo. Mediante un’estetica bidimensionale, caratterizzata da un regime di simmetrie tendenzialmente statiche, il regista greco plasma un microcosmo familiare disadorno e claustrofobico, rigidamente ordinato secondo un modello gerarchico di stampo patriarcale.

Secondo Giovanni, in principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum. Allo stesso modo principia Kynodontas, con la grottesca distorsione semantica di vocaboli comuni: il linguaggio è servus dei, strumento di potere dell’autocrazia genitoriale. Così, la “autostrada” diventa un forte vento, la “fica” una lampada di grandi dimensioni. Il “verbo” è quindi distorto e corrotto in nome di un’originaria purezza, la cui fonte è “Dio”, ovvero il Padre, la cui autorità si estende al controllo degli impulsi sessuali di ogni membro familiare.

Dove non può il linguaggio, è la paura che difende e consolida l’esercizio del potere. La famiglia è un perverso Olimpo in cui il tempo non è scandito dallo scorrere dei giorni e delle stagioni, ma da giochi e rituali apotropaici. La ricreazione si configura dunque come ri-creazione, ovvero come implicito rinnovamento delle gerarchie costituite. Sarà il cinema a spezzare il giogo di questo eterno solipsistico presente, inducendo la Figlia Maggiore a una fuga precipitosa – al cui esito allude l’inquadratura finale, omaggio a Citizen Kane.

I riferimenti si sprecano per questa delirante distopia familiare, intrisa di un’ironia esilarante e crudele. Tanto si è detto di Lanthimos: provocatorio come Von Trier, acuto come Haneke, irriverente come Buñuel. Si potrebbero individuare anche nessi extra-testuali: parlando di letteratura, come nei racconti di Kafka il grottesco non irrompe nella narrazione in medias res, bensì la guida sin dall’origine forzando personaggi (e spettatori) a un difficoltoso adattamento. Parlando di estetica, la scabrosa esibizione di una nudità acerba e contratta evoca i soggetti e le atmosfere di Balthus.

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A sinistra, Thérèse sogna, di Balthus. A destra, un’inquadratura di Kynodontas.

La verità è che Lanthimos possiede un genuino tocco d’autore che già rende Kynodontas un classico moderno, eloquente nella sua essenzialità e compiuto nella sua freschezza.

★★★★☆