Hard Eight – P.T.Anderson, 1996

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In questo ruolo P.B. Hall ricorda, e non poco, E.G. Robinson (più sotto).

Il misterioso Sidney (Philip Baker Hall), vecchio squalo del tavolo da gioco, insegna all’ingenuo John (John C. Reilly) come guadagnarsi da vivere bazzicando nei casinò. Da mentore a padre, il passo è breve.

Commento

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Robinson in un altro celebre film sul gioco d’azzardo, Cincinnati Kid.

Hard Eight sfrutta le atmosfere e i topoi narrativi tipici del genere noir (un protagonista carismatico, un passato oscuro, una donna bella e dannata, debiti di gioco, omicidi), affidando la chiave di volta a un colpo di scena che spariglia le carte verso la fine. Ai due ottimi interpreti sopracitati, si aggiungono le altrettanto buone interpretazioni della bella (Gwyneth Paltrow) e del bruto (Samuel L. Jackson) di turno. Menzione particolare per Baker Hall, che evocando lo spettro del grande Edward G. Robinson si esibisce forse nella prova migliore dell’intera carriera. La regia, misurata e distinta come il protagonista, si macchia di eccessiva deferenza.

 

★★☆☆☆

 

Il filo nascosto – P.T. Anderson, 2018

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Londra, anni ’50. Lo stimato couturier Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) confeziona abiti di lusso per l’alta borghesia londinese, gestendo la rinomata maison insieme alla sorella Cyrill (Lesley Manville). L’incontro con Alma (Vicky Krieps) sconvolgerà la sua vita solitaria.

Commento

Diretto da Anderson con impeccabile manierismo, in uno stile più sobrio e formale rispetto ai precedenti lungometraggi, Phantom Thread è una storia d’amore di ispirazione hitchcockiana (Rebecca, Vertigo), ovvero pervasa da pulsioni psicologiche sotterranee che orientano e impregnano la narrazione.

Come molti creativi, Reynolds Woodcock è un uomo solitario ed egocentrico, afflitto da inveterate compulsioni e sinistre nevrosi, che la sorella asseconda in toto. Eloquente la scena in cui il couturier fa spogliare Alma per confezionarle un vestito: il ricorso al metro e alla stoffa allude rispettivamente al bisogno di misurare e contenere ogni impulso, inclusa la sessualità (mai direttamente rappresentata nel film). Difatti, l’ancestrale “maledizione” di Reynolds ha origine edipica: la madre gli ha insegnato il mestiere, gli ha commissionato il secondo vestito nuziale e continua a visitarlo durante il sonno e la veglia. La richiesta di Reynolds ad Alma (“Vuoi aiutarmi?”) è pertanto allegorica.

La “maledizione”, la “fattura” (in inglese, curse), citata dallo stesso protagonista, è un richiamo esplicito alla tradizione fiabesca europea. Arduo non pensare a La bella e la bestia, celeberrima opera della de Beaumont: un principe misantropo e solitario, colpito da un sortilegio (Reynolds), viene riscattato e redento da una giovane candida e innamorata (Alma). Se non fosse che la giovane in questione, sia pur innamorata, non è certo candida, poiché avvelena il marito.

La storia del cinema è ricca di “geni maledetti”, così come è ricca di femmes fatales (una delle ultime in ordine cronologico, anch’essa dedita a occasionali avvelenamenti, è la Rachel di cui scrivo per Ondacinema). Il contributo originale del film è la sussunzione di un tale disordine costituito nell’ordinarietà dei rapporti sentimentali: quando Reynolds scopre l’inganno, abbraccia il proprio ruolo di vittima (“baciami, prima che cominci a stare male”), così come Alma esprime il desiderio che, a mutate circostanze, sia il marito a dominarla (“ti voglio inerme, e poi di nuovo forte”). Crudeltà e ipocrisia sono dunque riconosciute non come ostacoli, ma come condizioni necessarie di un’autentica esperienza amorosa.

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Il turning point dell’intero film. Reynolds scopre di essere stato avvelenato e invece di esplodere in un furioso attacco di rabbia, sorride e approva compiaciuto il folle piano di Alma.

In altre parole, il frequente rovesciamento dei rapporti di potere all’interno di una relazione è la fiamma che alimenta e vivifica l’amore (“una casa che non cambia è una casa morta”), persino quando il motore di tale dialettica è l’odio, la brutalità o la menzogna. L’inserto celato nell’abito nuziale (“never cursed”) è un elemento essenziale per comprendere l’ambivalenza di Reynolds, il cui dispotico egocentrismo è bilanciato dal desiderio inconscio di ricongiungersi al grembo materno, sublimando la più inconfessabile delle pulsioni: quella incestuosa (Freud, Totem e tabù). Proprio Alma, tramite l’esercizio di una crudeltà tanto dissennata quanto metodica, esorcizzerà il fantasma della madre, sostituendosi a esso. Ecco allora che il Phantom Thread, il filo nascosto, non sarà quello materiale che nasconde il messaggio nell’abito nuziale, quanto piuttosto quello immateriale che connette, agli occhi di Reynolds, la madre e la moglie.

Per metà Pigmalione, emblema della virilità che esercita sulla donna un potere demiurgico, e per metà Edipo, emblema di una virilità assoggettata alla figura materna, Daniel Day-Lewis in questa sua ultima, magnifica interpretazione, illumina la natura ambigua e contrastante dell’amore, sentimento che unisce e separa, produce e distrugge e, parafrasando Eraclito, “dai discordi trae bellissima armonia”.

★★★★☆