Top 5 – film sui Vampiri

L’imminente rilancio del “Nosferatu” di Murnau in vari cinema sparsi in tutta Italia ha spinto Claudio Confalonieri e il sottoscritto a dedicare ai vampiri una puntata podcast del nostro Radiodrome – per Ondacinema

Insieme a noi Gaetano Pagano -esperto in monster studies e letteratura angloamericana, autore con Francesca Giro del podcast Monstrumana che è diventato anche un libro per Effequ.

Tra le domande che sono uscite, Quali sono i più bei film di vampiri nella storia del cinema?

Qua sotto la mia imprecisa Top 5.

Nosferatu (Murnau, 1922) ★★★★★

Vabbè, questa era facile. Un secolo di età e non sentirlo. Film non-morto, di una modernità impressionante. Praticamente Murnau inventa il montaggio alternato, che è anche una delle tecniche preferite di Nolan, più moderno di così si muore. Inventa anche l’idea che il sole distrugga i vampiri – il Dracula del romanzo di Stoker si muove in pieno giorno. Tuttora un punto di non-ritorno nella rappresentazione della figura del vampiro.

Vampyr (Dreyer, 1932) ★★★★★

La visionarietà di Dreyer ha fatto scuola. A sx, Vampyr. Dx, C’era una volta in America.

Murnau gira un film muto, Dreyer sonoro. Murnau si ispira a Stoker, Dreyer a Le Fanu. Murnau ama i campi lunghi, Dreyer i primi piani. Murnau è figlio dell’espressionismo e va verso il realismo, Dreyer è figlio di un’austerità nordica che deraglia nel surrealismo. Murnau è padrone delle ombre, Dreyer è padrone della luce. Murnau firma un capolavoro, Dreyer anche.

Nosferatu, il principe della notte (Herzog, 1979) ★★★★★

Herzog realizza la missione impossibile di rifare il Nosferatu e rivaleggiare con l’originale. Alcune differenze importanti sono: Uno, la sequenza iniziale sulle mummie messicane di Guanajuato, da cui trapela non solo l’appassionata natura viaggiatrice del regista ma anche la suggestione che il male sia ovunque, in qualunque tempo e continente. Due, il maggior rilievo di un grande cast – Bruno Ganz, Isabelle Adjani e Klaus Kinski. Tre, il grande uso di due strumenti di cui Murnau non poteva disporre, colore e sonoro. Quattro, è più esplicita la relazione tra vampirismo e sessualità. Cinque, viene messa in risalto la solitudine e la vulnerabilità del vampiro, ma anche l’inutilità del sacrificio rispetto a un male che continua malgrado tutto a proliferare, a riprodursi.

The Addiction (Ferrara, 1995) ★★★★☆

Ferrara pesca più dal modello herzoghiano per il suo ritratto dei vampiri newyorkesi, ma ancora di più alla sua esperienza di tossicodipendenza che diventa un’allegoria latente della condizione vampiresca. Già nei Nosferatu, la dipendenza dal sangue costituisce la ragion d’essere del vampiro e la sua grande debolezza. Ferrara restituisce al vampiro la sua debolezza, e dunque la sua umanità, trasformandolo nella metafora ambulante di una condizione che riguarda tutti gli esseri umani: la dipendenza – da sostanze, da abitudini, da convinzioni, da cose che si pensano o si possiedono, da sentimenti, da luoghi, da altre persone. What we are, is eternally with us: i nostri istinti, dunque i nostri vizi, sopravvivono alle morti dei singoli individui, seguitano a tormentare le generazioni come parassiti, come ospiti inquietanti, fino alla fine dei tempi.

Parimerito al quinto posto, non per valore assoluto quanto per la peculiarità di rappresentare interessanti variazioni sul tema, metterei lo spassoso mockumentary What We Do In The Shadows (Clement-Waititi) ★★★½☆☆ e il delirante Thirst (Park Chan-wook), ★★★☆☆ dove un prete-vampiro viene violentato dalla sua amante e accadono altre cose che accadono solo nei film coreani.

Godland – H. Palmason

Quasi 1900. A un prete danese con la passione per la fotografia viene assegnata una parrocchia in Islanda. Parte controvoglia per un viaggio periglioso in cui l’amico interprete incontra una morte tragica. E forse è il più fortunato dei due.

In Godland la questione fotografica non è al centro, è letteralmente da tutte le parti, a partire dalla bizzarra scelta di formato 1.33: 1 che ricorda i dagherrotipi di fine Ottocento, poi la scelta di girare in pellicola 35mm e la potente cinematografia di von Hausswolff che ritrae un’Islanda bella e terribile, incompleta come l’Amazzonia di Aguirre (Herzog), una terra in cui pare che il Creatore debba tornare un giorno per finire la creazione.

E come in Herzog, al cuore dell’opera pulsa la lotta impari tra uomo e natura. E ancora la critica postcoloniale che si articola nel rapporto gerarchico tra islandese, lingua natia/naturale, e danese, lingua colonizzante/civile. E ancora una satira intrisa di humor nero alla Lanthimos che graffia l’ipocrisia dei costumi, soprattutto religiosi.

Insomma un film con tre o quattro cuori, come un calamaro, ma altrettanto sguiscio, privo di spina dorsale, che annida in ogni genere senza abitarne nessuno, gettando fumo, anzi inchiostro, in faccia allo spettatore per almeno 40 minuti più del necessario. E come tanti calamari finisce, a dispetto della sua innegabile intelligenza e ammaliante mostruosità, arrostito.

★★½☆☆☆

Novità e visioni, dicembre 2022

Oltre all’uscita del mio volume su Winding Refn edito da Falsopiano, che se non altro è da acquistare per la bellissima copertina (ma è anche molto funzionale se avete una gamba del tavolo più corta), segnalo alcune recenti visioni.

Bones and All, L. Guadagnino ★★★½☆☆

Adolescente invitata a un pigiama party ha un languorino e sgranocchia il dito di un’amica.

Allora fugge e viaggiando on the road scopre persone con gli stessi gusti: un creep (un indimenticabile Rylance) e un fidanzatino (un dimenticabile Chalamet).

L’amore non sazia, ma spesso ci divora.

Succoso

Triangle of Sadness, R. Ostlund ★★☆☆☆

Comincia come una satira intellettuale e continua come “Selvaggi”.

Ezio Greggio almeno non c’è, ma la commedia, ammiccando con eccessiva disinvoltura al pubblico americano delle pop comedy, va comunque alla deriva.

Più che Triangle of Sadness è un triangolo delle Bermuda in cui Ostlund affonda il suo cinema.

Naufragico

The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft, W. Herzog ★★★½☆☆

Usando il footage pluridecennale di due vulcanologi uccisi da un’eruzione, Herzog compone il solito affresco su una natura fascinosa e terrificante sfidata da personaggi oltre i limiti.

Viene quasi il sospetto che da anni diriga sempre lo stesso film.

Ed è sempre bello.

Sublime