[26] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

In Pusher 3 la dipendenza diviene insomma un tema centrale, assillante, ma in Pusher aveva già raggiunto una compiuta e mirabile sintesi espressiva: Vic e Frank rientrano dopo una serata insieme. Il montaggio li separa con dolcezza, lui fuma una canna a letto, davanti all’alone bluastro del televisore, lei sola alla toilette, con un cartone di latte al cacao e una siringa di eroina. Non c’è alcuna apertura alla pienezza dell’eros, che realizza l’acme del godimento attraverso la domanda dell’altro. All’opposto, la pratica tossicomanica “assume le forme ciniche di una chiusura del desiderio nel godimento monadico” (Recalcati 2010, 202).

[12] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sopra, Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein. Sotto, Bleeder.

In Bleeder, Leo viene incatenato e appeso da Louis in un magazzino abbandonato (sentito omaggio a Tobe Hooper, Non aprite quella porta, 1974), gli viene iniettato del sangue sieropositivo, quindi viene liberato. Come insegna la parabola di Euridice, chi viene rubato alla morte non può che ritornarvi: il rapporto tra Louis e Leo ricalca quello tra Frankenstein e la Creatura ne Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein. Attraverso il sangue sieropositivo Louis forgia un nuovo Leo, infetto e condannato, ormai privo di interessi personali, che agisce nell’interesse della comunità: l’eliminazione di Louis, gangster violento e incestuoso, che trasgredisce le leggi della civiltà e della natura. Louis finisce come il barone Frankenstein (Udo Kier), morto per avere ingannato la morte e per mano della sua Creatura, che ha per madre la morte e per padre il barone.

[11] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sopra, The Gambler. Sotto, Bleeder.

È difficile non sovrapporre la parabola di Pusher a un altro spettacolare personaggio del cinema anni ’70, il James Caan protagonista di The Gambler (in italiano, 40,000 dollari per non morire, tra i tanti scempi perpetrati da titolisti e montatori italiani in quegli anni, Karel Reisz, 1974). Caan interpreta Axel Freed, un professore universitario di letteratura inglese affetto dal vizio del gioco. Come Frank, Axel si sottomette a una legge più ferrea e profonda della razionalità, quel circuito (ancora una volta una dimensione ciclica, incarcerante) ormonale di dopamina, adrenalina e serotonina che accompagna il gioco d’azzardo.

L’epilogo è comune a entrambi i film, un inquietante primo piano. L’uno grondante sangue davanti allo specchio, narcisisticamente orgoglioso della traccia che gli solca il volto. L’altro catturato da una carrellata circolare, asfissiato dalla luce cruda e giallastra dei neon. Due primi piani che testimoniano l’implacabile discesa di un uomo trascinato dalle pulsioni.

Finale di Pusher.

[10] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Una poetica che gioca sul fato, gioca sulla violenza e gioca anche sulla vertigine, ciò che in Eschilo sarebbe dine – rotazione, ciclo, spirale, gorgo, mulinello, vertigine. Innanzitutto come senso di accerchiamento, dalla combinazione di una handicam balzellante e un labirinto di anditi angusti, dominati da viraggi contrastivi.

[7] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Emotivamente castrato, Frank (Pusher) non è capace di relazionarsi con gli altri che attraverso una scala di violenze, fisiche o psicologiche, dirette indirette, serie o simulate. Tuttavia, non è pronto ad assumere la portata eroica che l’esercizio della violenza porta con sé nel cinema refniano (basti pensare al Ryan Gosling di Drive). Il finale aperto, sospeso, di Pusher, lascia intendere che finirà vittima di Milo, il gangster con cui ha accumulato un grosso debito.

È Frank stesso a ostruirsi l’unica possibile via di uscita, una romantica fuga in Spagna con Vic (“The hell would I do in Spain?”). Nessun miraggio esotico alla Dillinger è morto (Marco Ferreri, 1969), alla Carlito’s Way (Brian De Palma, 1993), nessuna redenzione. In chiusura il montaggio alterna la fuga in taxi di Vic e la preparazione dell’agguato ordito da Milo a una serie di primi piani statuari, incombenti, con Frank immerso in una luce inacidita.

[5] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Mentre Frank (Kim Bodnia in Pusher) non accetta la propria identità di genere, Leo (Kim Bodnia in Bleeder, secondo lungometraggio di NWR) non accetta la propria identità di padre. Feticisticamente attaccato a poche inutili carabattole come espressione di una libertà mai realmente goduta, che vendica le frustrazioni delle proprie speranze disilluse sulla moglie che sposta, rimuove i feticci: This is my life! / Aren’t I your life too? E segue il violento pestaggio che la porterà all’aborto. In queste battute si condensa il dramma, così come in quella seguente: I was never asked. Fuck, I don’t want a kid in this shitty world, quasi una contre-plongée in cui l’intera stanza, sotto l’effetto delle lenti anamorfiche, pare curvarsi, ripiegarsi su sé stessa.

[4] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sempre in Pusher, il disprezzo di Frank verso il genere femminile si può ricondurre a un’omosessualità latente e repressa, sulla falsariga di quanto Wood scrisse a proposito di Toro scatenato (Robin Wood, “Raging Bull: The Homosexual Subtext in the Film,” in Michael Kaufman, a cura di, Beyond Patriarchy. Essays by Men on Pleasure, Power and Change, Toronto-New York: Oxford University Press, 1987).

Come in Toro scatenato, l’aggressività verso il genere maschile segna la difesa contro il ritorno dell’omosessualità repressa, secondo un tipico schema freudiano – “io non lo amo, io lo odio.”

Il vero indizio in questo senso giunge in apertura, un bacio breve ma intenso tra Frank e Tonny in cui è il primo a prendere l’iniziativa, e a compiere, per la prima e unica volta nel film, un gesto d’affetto. L’indole anaffettiva e violenta di Frank deriverebbe dunque dall’impossibilità di palesare la propria identità sessuale in un patriarcato tossico.

[3] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Pusher si sviluppa con le modalità del thriller, ma il cuore del dramma è amletico, il conflitto shakesperiano tra dovere e desiderio.

Il fatto che Pusher sia un dramma identitario viene confermato dalla scena in cui Frank danza con un teschio in mano, evidente citazione amletica. Una fragilità che la fidanzata, la escort Vic, nella sua disperata innocenza, pare non solo comprendere ma anche condividere: “I could be whatever I want, I just don’t feel like it.”

Come ho scritto altrove, “la crisi identitaria di Amleto consiste nel non sapersi risolvere a interpretare il ruolo di erede al trono, il ruolo di vendicatore o nessuno dei due. Amleto non sa o non vuole sottrarsi all’onere della scelta tra due alternative egualmente invise; in ritorno, l’indecisione si ripercuote sul personaggio scatenando una crisi latente sin dall’inizio del dramma, che infatti si apre con un’urgente richiesta di identificazione (Who’s there? 1.1.1-2)” [da R. Capra, I flauti del cielo, Mimesis, p.76].

[2] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sopra, Non aprite quella porta. Sotto, Pusher. Lo squallore di una cucina sporca, il senso di minaccia, l’orrore claustrofobico e senza vie di fuga.

Già in Pusher, è palpabile l’influenza di Non aprite quella porta (T. Hooper, 1974), un horror, a detta di NWR, “terrificante anche se non accade nulla, non vedi mai nessuno venire ucciso, è il sound design […] Una maniera molto efficace di raccontare una storia.”

La scenografia veicola un sentimento di oppressione claustrofobica, anche attraverso l’utilizzo del colore e del sonoro: “le stamburate punk-rock dei Prisoner inchiodano gli attanti alle penombre acide di scantinati, pub, palestre, cessi, club underground, tagliate da viraggi verde fluo, rosso shocking, blu neon, in aloni foschi e granulosi reminiscenti di una cinematografia anni ’70.”