Darth Vader, Ryunosuke, Lacan – Parte 2

La spada come simbolo fallico…

Nella teoria psicanalitica il fallo non è l’organo genitale maschile, designa invece la funzione simbolica di ciò che in origine il bambino sospetta essere l’attributo indefinibile che rende il padre oggetto delle attenzioni della madre. Il bambino, che edipicamente desidera sostituirsi al padre in quanto oggetto del desiderio della madre, è costretto a rinunciare a tale desiderio. L’assenza strutturale di quel godimento è segnalata dalla presenza di un significante – il fallo, appunto. Un corretto posizionamento del soggetto psichico rispetto al fallo consente l’apertura al desiderio e al godimento; in caso contrario, favorisce l’insorgere di malattie mentali e nevrosi.

Il fallo è dunque il significante di un godimento mitico, che il fallo segnala ma in quanto irrecuperabile, irraggiungibile. In questo senso il fallo simultaneamente indica una via e sbarra la strada, un po’ come accade all’uomo di campagna nella parabola kafkiana “Davanti alla legge”. Tormentato dall’angoscia della perdita del fallo, il soggetto psichico infantile procede, con le prime simbolizzazioni, all’identificazione del fallo con altri oggetti.

In quest’ottica la spada di Ryunosuke si configura come simbolo fallico per eccellenza. E non, banalmente, per la forma rigida e allungata. Ma primo, perché la sola eventualità dell’abuso o della perdita della spada è sufficiente per scatenare in Ryunosuke un’angoscia identificabile con il timore della castrazione. Secondo, perché la spada rappresenta una promessa di godimento: è soltanto nel duello, nello sfogo compulsivo degli istinti omicidi, che il samurai cerca l’appagamento del desiderio. Terzo, perché la spada che si offre come ponte verso il godimento è in realtà contemporaneamente il muro che ne preclude l’accesso.

…compulsione narcisistica alla distruzione…

In altre parole, in Ryunosuke l’esperienza psichica del desiderio non si articola liberamente, ma viene assoggettata dal significante fallico. Ryunosuke è per così dire spossessato del suo desiderio, alienato nella sua ricerca del godimento, che si articola nella compulsione narcisistica alla distruzione. E le pulsioni distruttive sono sempre, in qualche misura, auto-distruttive, come mostrano le figure mitologiche di Achille, di Aiace Telamonio. L’ira è un abisso che cela nelle sue profondità l’inconfessabile anelito a svanire, un cupio dissolvi implicato dalla stessa struttura biologica delle creature viventi, come predicato dal concetto di “pulsione di morte” (Todestrieb) descritto da Spielrein, Freud, Klein, Lacan, Recalcati…

In questo senso Ryunosuke è un villain ben più tragico e irrecuperabile di Vader. Laddove il secondo agisce in nome di una fede integralista (nel lato oscuro e nell’Impero), il primo è integralista nel rifiuto di ogni fede alternativa al mero esercizio della spada. Ryunosuke è irredimibile, perché il suo nichilismo non offre alcuna fede da redimere. La sua vita, che oscilla fra l’ottundimento alcolico e l’eccitazione omicida, è un pendolo che scandisce il metodico esercizio della violenza. Al di là dell’estetica, e della prossemica, le due figure sono perfettamente sovrapponibili quando anche Vader si abbandona meccanicamente al delirio estatico della violenza, come nel magnifico epilogo di “Rogue One”.

Darth Vader, Ryunosuke, Lacan – Parte 1

Il villain si frappone tra osservatore e punto di fuga. Contrapposta a un orizzonte vasto e nebuloso, la figura guadagna volume e solidità, acuendo il senso di minaccia.

Non mi stupirei se George Lucas, dopo aver plasmato “Guerre Stellari” (1977) sulla trama de “La fortezza nascosta” (A. Kurosawa, 1958) e l’aspetto di Darth Vader sulle armature dei samurai, avesse attinto una volta di più al cinema giapponese per la costruzione psicologica del personaggio.

Parlo del protagonista di uno splendido jidaigeki di Kihachi Okamoto, “Dai-bosatsu Tōge 大菩薩峠” (1966) – letteralmente “Il passo montano del grande bodhisattva”, ma tradotto in occidente con titoli che suonano più o meno come “La spada del male”. Nella mitologia buddhista, il bodhisattva è una creatura illuminata che rinuncia alle vuote beatitudini della meditazione per tornare fra la gente, e aiutare ogni essere vivente nel suo percorso di liberazione dalla sofferenza. Il titolo originale sembra rilevante, se non altro perché il protagonista Ryunosuke – un magnifico Tatsuya Nakadai – sembra l’esatta inversione di un bodhisattva: samurai privo di compassione che gode nel dispensare morte e sofferenza, con un attaccamento mistico, quasi religioso alla sua spada.

Non mancano i momenti leggeri e distensivi. Come si fa a non essere contenti quando informi la tua donna che, dopo averle ucciso il marito, le ammazzerai anche il cognato?

Oltre la raffinata cinematografia che produce in serie soggetti da ukiyo-e, oltre il volto cereo di Nakadai, sorriso demoniaco e movenze da teatro Noh, Ryunosuke intriga per la sua modernità. Il cinema giapponese pullula di drammi in costume, morti violente, storie di samurai e vendette, ma nel 1966 è la prima volta che un film viene dominato da un’ombra, dall’incarnazione cristallina del nichilismo più disperato e distruttivo. L’uomo che “in tutto il mondo crede solo alla sua spada”, corrotto dalla purezza integralista del proprio invincibile talento, assomiglia a Vader sin dalle prime inquadrature: l’imponente presenza scenica, il volto coperto, il colore nero, le movenze risolute e meccaniche.

Scenari da ukiyo-e.

Continua…

Note su Winding Refn – La vertigine del fato

“…l’onda del mare con fragore brutale
ingombri le vie degli astri,
lanci di peso il mio corpo nelle tenebre del Tartaro,
nella ferrea vertigine del Fato.”
Prometeo incatenato, Eschilo

La scena del combattimento in Solo Dio perdona esemplifica su vari piani le fascinazioni ricorrenti del cinema di NWR.

Winding Refn è certamente un regista eschileo, se con questo aggettivo si intende una poetica che ruota intorno ai concetti di violenza, colpa, castigo e giustizia in un ordito lineare minacciato da un fato invisibile e ubiquo. Nelle opere di Eschilo il destino opera come una imperscrutabile forza di gravità, muovendo i personaggi in traiettorie brutali e geometriche che ricordano le pedine degli scacchi. Quando Prometeo commette il sacro furto è consapevole del destino che lo attende, invocando la “ferrea vertigine del fato”. La frase svela due aspetti fondamentali che contraddistinguono il “fato” (in greco, anànche – ἀνάγκη).

In primo luogo il fato è ferreo, piega gli individui alle sue imperscrutabili traiettorie. Benché l’etimologia sia incerta, ἀνάγκη potrebbe derivare da alfa privativo + ànkos – ἄγκος, ovvero “ansa”, “valle”, per estensione “curva”, “incurvatura”, “flessione”. Anànche sarebbe allora, per definizione, ciò che non si piega. In secondo luogo il fato è vertiginoso, provoca ebbrezza, eccitamento, disorienta e sorprende. Come ricorda Hitchcock in uno dei suoi film più celebri, vertigine è anche capogiro, perdita dell’equilibrio, movimento spiraliforme, elicoidale. Quindi il fato riassume due figure contraddittorie, la linea e il circolo, che rappresentano l’inesorabilità e la vertigine. La contraddizione è solo apparente, perché in questa dualità complementare si dona appunto la specificità del fato, che impone la propria linearità inesorabile attraverso una ciclica ripetizione di schemi e pulsioni.

È lo stesso Winding Refn a esporre la natura iterativa del proprio cinema quando sostiene che i protagonisti di “Valhalla Rising”, “Drive” e il tenente Chang di “Solo Dio perdona” sono “la stessa creatura mitologica, che ha un passato misterioso ma non può rapportarsi alla realtà perché è troppo superiore, è puro feticcio.” Questi personaggi, come anche Bronson, Tonny (“Pusher II”) e altri, sono colti nello sforzo di diventare ciò per cui sono destinati, seguendo un archetipo narrativo proprio delle fiabe, dei racconti popolari. In quest’ottica, la scena del combattimento tra il tenente Chang e Julian in “Solo dio perdona” offre un osservatorio privilegiato per cogliere il movimento inesorabile e vertiginoso del destino.

Nella rossa penombra fotografata da Larry David, il duello viene introdotto da una dialettica di campo/controcampo giocata su carrellate circolari (mdp intorno a Chang) e panoramiche circolari (mdp ruota sul proprio asse). È una plongée a spezzare l’equilibrio, riprendendoli dall’alto. Si tratta di un’inquadratura per definizione dominante, perché controlla e racchiude l’azione dall’alto. Il duello prosegue con un campo lungo, medio e primo piano, cut sugli spettatori, poi di nuovo medio e si torna in plongée, come a ribadire il dominio del fato che incombe. L’impressione di vertigine è acuita dal movimento di Chang, che gira intorno a Julian massacrandolo di calci. Primo piano su Chang e zoom in, cut sulla statua e zoom out: il montaggio giustappone il personaggio a un’immagine archetipica, ancestrale. Forte di una palette tonale dai colori sintetici, la traccia Wanna Fight di Cliff Martinez esprime nel giogo incessante delle ripetizioni armoniche la circolarità del fato, che attira a sé con il moto spaventoso e irresistibile di una vertigine.

Cronocidio: ritratto di un disvalore estetico nella società accelerata

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Una donna entra in TAC con il cellulare.

Nella società accelerata, l’avvento delle tecnologie digitali ha alterato la dimensione del tempo percepito (Gonidis e Sharma 2015). La diffusione degli schermi favorisce la proliferazione di testi, immagini, musiche, giochi, filmati, contenuti che si prestano a un consumo smodato e insaziabile. Lo zapping, le maratone youtube, il browsing compulsivo, il social surfing, pratiche consolidate nella comunità web, condividono una struttura del tempo percepito basata sullo schema breve/breve (Rosa 2015). Saltando di link in link, il tempo dell’esperienza accelera fino ad azzerarsi; il tempo dell’esperienza dunque è breve. Al termine della sessione, malgrado l’eventuale intensità degli stimoli psicologici ed emotivi, non sapremmo ricostruire l’esatta cronologia delle nostre visite, né rievocare con esattezza il vissuto esperienzale; anche il tempo del ricordo dunque è breve. A questa particolare configurazione del tempo percepito do il nome “cronocidio.”

[…]

Il neologismo non è gratuito, perché va idealmente a definire non soltanto un preciso tipo di percezione temporale, ma anche un’esperienza estetica caratterizzata da estrema volatilità e de-sensualizzazione del vissuto. Prendiamo il caso di un viaggio in treno: il viaggiatore sprovvisto di schermo si concentrerà di volta in volta sul paesaggio, sul suono delle rotaie, sull’odore di caffè, sul profumo di una bella donna che passa in vagone, sulla superficie gelida del vetro, sulla carta zigrinata del biglietto, e in assenza di stimoli esterni significativi si rivolgerà alla memoria e all’immaginazione per evocare ricordi, riflessioni, progetti, inquietudini. Invece il viaggiatore provvisto di schermo erigerà un secondo schermo fra sé e il mondo, riversando la propria attenzione sui contenuti digitali, che più che contenuti sono contenitori nei quali la coscienza viene gradualmente diluita. Al termine di una sessione di voyeurismo social o di browsing delle notizie di calciomercato ci si risveglia storditi, come da un incubo. Riemergono d’acchito gli stimoli esterni dopo una momentanea mutilazione sensoriale. E il tempo? Ucciso, annichilito. La frase idiomatica “ammazzare il tempo” non è più sinonimo di divertimento o distrazione, assume una valenza letterale: il tempo perde peso, consistenza, sensualità, odore, colore.

[…]

L’articolo completo su Le Parole e le Cose.

The Assassin e lo stile qinglu 青綠

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I cavalieri, le montagne, il verde, il blu. 

Sopra, un’immagine tratta dallo wuxia “The Assassin” (Hou Hsiao-hsien, 2015); sotto, una copia Ming del dipinto di Qiu Ying che ritrae il viaggio dell’imperatore nella provincia dello Sichuan.

Non stupisce che il regista si sia ispirato alla tradizione pittorica cinese per la realizzazione del film, la cui estetica mesmerizzante sfrutta vividi contrasti cromatici e luminosi nel tentativo di esprimere i conflitti quiescenti in un contesto di calma apparente.

Nello stile qinglu 青綠 (“blu-verde”) si trova espresso, come in gran parte della pittura shanshui 山水 (“paesaggio”), il contrasto tra cicli naturali e disegni umani. I primi, indifferenti ai secondi, li sussumono in un più ampio contesto, nel quale diluiscono,  rivelandosi contingenti e arbitrari rispetto alla maestosità del cosmo.

A Yinniang, assassina incaricata di uccidere il cugino, non resta che scegliere tra giustizia sociale e armonia interiore, incarnando una volta di più il conflitto amletico tra ruolo e indole, responsabilità e desiderio.

★★★★☆

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L’imperatore Minghuang viaggia tra le gole dello Sichuan. Il dipinto è parte di un rotolo molto più grande, inchiostro su seta, probabile 17° secolo.

Immagini a confronto: Fellini e Hou Hsiao-hsien

La giustapposizione fra queste due immagini fa emergere con chiarezza i rispettivi paradigmi culturali.

8½, F. Fellini

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“Eminenza, non sono felice.” “Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?”

L’inquadratura descrive l’incontro di Guido con il cardinale. Il forte contrasto tra la figura immacolata del prelato avvolta da vapori eterei e i fanghi neri in primo piano che precipitano grevi al suolo rende con immediata chiarezza il turbamento religioso del protagonista, invischiato nel magma delle passioni terrene. La parola chiave è trascendenza, ovvero lo slancio oltre l’effimera realtà sensibile verso il regno spirituale, incorruttibile ed eterno.

The Assassin, Hou Hsiao-hsien

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Yinniang torna al monastero in cui è cresciuta.

L’incontro dell’assassina Yinniang con la padrona, la monaca daoista Jiaxin. Il contrasto tra le estensioni materiche degli elementi in primo piano (mattoni, rocce, rami, tegole, scalini) e i colli boscosi sullo sfondo, immersi in una quieta caligine, sembra ricondurre forme e vuoto nell’alveo comune dell’impermanenza (無常 wuchang). Non vi è una configurazione gerarchica come nell’immagine precedente, dove la figura del cardinale, illuminata e mediana, sembra sul punto di ascendere. Piuttosto, la dichiarazione che cicli naturali e opere umane sono ugualmente soggette allo scorrere del tempo.