[25] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sopra, Il pranzo di Babette. Sotto, Pusher 3.

Il ripetuto accostamento tra violenza e vivande trasfigura Pusher 3 in una versione psicotica de Il pranzo di Babette (Gabriel Axel, 1987). Il film è ambientato in gran parte nelle cucine, nelle sale da pranzo in cui Milo si adopera per moltiplicare vassoi di prevodom e involtini primavera, prima di finire tra gli stessi fornelli i suoi nemici a colpi di martello. Si sovrappongono il cucinare e l’uccidere, l’uomo e il bestiame, nella brutta fine di Rexho appeso come un quarto di bue, dissanguato alla maniera halal, eviscerato, sporzionato, impacchettato (ennesima citazione hooperiana).

L’ispirazione, chiarissima, è Non aprite quella porta.

[8] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

In Bleeder, Leo viene incatenato e appeso in un magazzino abbandonato (sentito omaggio a Tobe Hooper, Non aprite quella porta, 1974), gli viene iniettato del sangue sieropositivo, quindi viene slegato. Al risveglio si incammina verso un orizzonte aperto, luminoso, tra i pochi campi lunghi di un film giocato prevalentemente in interni, e prevalentemente angusti.

È un segnale: dopo avere lungamente aspirato alla dimensione eroica, prefigurata dalla clip di Vigilante (William Lustig, 1982), Leo, vittima dei propri demoni come il protagonista di un’altra clip, Maniac (Id., 1980), viene trasfigurato in un nuovo essere, ennesimo aspetto prefigurato da una clip (Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein, Paul Morrissey, 1973).

[2] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sopra, Non aprite quella porta. Sotto, Pusher. Lo squallore di una cucina sporca, il senso di minaccia, l’orrore claustrofobico e senza vie di fuga.

Già in Pusher, è palpabile l’influenza di Non aprite quella porta (T. Hooper, 1974), un horror, a detta di NWR, “terrificante anche se non accade nulla, non vedi mai nessuno venire ucciso, è il sound design […] Una maniera molto efficace di raccontare una storia.”

La scenografia veicola un sentimento di oppressione claustrofobica, anche attraverso l’utilizzo del colore e del sonoro: “le stamburate punk-rock dei Prisoner inchiodano gli attanti alle penombre acide di scantinati, pub, palestre, cessi, club underground, tagliate da viraggi verde fluo, rosso shocking, blu neon, in aloni foschi e granulosi reminiscenti di una cinematografia anni ’70.”