Le micro-recensioni di Aprile

Challengers (L. Guadagnino)
Bravissima tennista interrompe carriera ma prosegue con il doppio fallo.
Slam
★★★★☆

May December (T. Haynes)
Insegnante stupra alunno. Lui la sposa. Attrice la imita. Lui sta al gioco.
Spiegelspiel
★★★☆☆

Priscilla (S. Coppola)
Elvis fa cose. La moglie no.
Queen
★★★½☆☆

“Challengers” di L. Guadagnino

In breve: un film-cipolla, poco compreso in cui Guadagnino, autore poco compreso, si diverte a mettere strati su strati. Strati di tempo, di corpi, di desiderio, il tutto sotto a strati di immagini, immagini di gioventù, di bellezza, di divi e dive, di tennis. Fermarsi al primo strato si può, ma non è consigliato. Guadagnino è uno di quei registi che non si possono guardare con cinismo. Altrimenti si può ridurre anche il tennis al semplice gesto di mandare la palla di là dalla rete. E in fondo, è esattamente quello che è. No?

Triangolo

Sulle tribune Art e Patrick guardano Tashi, alla festa attirano il suo sguardo, nella loro camera d’albergo Tashi li attira uno verso l’altro e rimane a guardarli. “Challengers” è tutto racchiuso in questo triangolo mimetico di giovani che imparano a guardarsi, a desiderarsi, in questo movimento centripeto, spiraliforme, traiettoria che ruota intorno a sé stessa e rimbalza sulla terra rossa del desiderio prima di rimbalzare e rilanciarsi in un’altra spirale, la spirale esotica del tempo, che riavvolge gli anni e gli scontri in un gomitolo bergsoniano (e dunque proustiano) in cui passato e presente non si allontanano come il treno dalla stazione di partenza, ma si sovrappongono come legna alle braci, le braci di un desiderio sempre vivo, bruciante, lesto a riaccendersi.

Linea

Guadagnino accentua questo aspetto ever-pulsante, anacronistico del desiderio tramite la scomposizione della linea narrativa in un’ellissi che avvolge e comprime il passato, in una molla pronta a esplodere nello scontro finale, risolutivo, centro eccentrico della vicenda verso il quale tende tutto il film. Lo accentua anche tramite le violente coupure, elisioni di montaggio che disorientano, che tagliano la testa all’idra del desiderio solo per il gusto di vederlo raddoppiare. Idra, Ercole: la linea è anche quella greca, omerica, del muscolo dell’atleta, del gesto ripetuto, cesellato, della gioventù eroica, della grazia matematica di Policleto, delle geometrie eccentriche del tennis piegate alla forza del desiderio, della lotta tra apollineo e dionisiaco.

A e B

Art è l’apollineo. Biondo, taciturno, riflessivo, adulto anche da adolescente, l’uomo affidabile che si affida alle strutture: l’accademia, il circuito professionistico, la fondazione benefica, la famiglia. Patrick è il dionisiaco. Moro, spaccone, con quel ghigno da schiaffi, adolescente anche da adulto, dorme in macchina, spende tutto, evita ed erode le strutture, seduce e abbandona. L’uno più geometria, l’altro più genio. Eppure, scriveva Foster Wallace che prima di diventare un eccellente scrittore fu un ottimo tennista, ai margini del professionismo, il tennis è genio e geometria, regola ed eccezione tutto insieme. Apollineo e dionisiaco, in un’eterna ghirlanda brillante. Perché l’umano desiderio, come il tennis, ha bisogno di entrambi, perché è fatto di entrambi.

Rete

Questa sfida (challenge) tra amanti-rivali, doppi e diversi, tra Dioniso e Apollo, richiama un’infinita rete di riferimenti. Per dirla alla Julio Iglesias, c’è chi è pirata e chi è signore: Rhett e Ashley in “Via col vento”, Rick e Laszlo in “Casablanca”, Han Solo e Luke Skywalker in Star Wars, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman in “The Master”, più di tutti Marlon Brando e Jean-Pierre Leaud in “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, riferimento importante per Guadagnino. Là come qui era il corpo desiderato e desiderante di Maria Schneider il motore immobile del récit, qui è il corpo divino, divizzato di Zendaya a cominciare il gioco, già in quel primo appuntamento che in realtà non è mai finito, non finirà mai.

Game

Giocare, nella filosofia gadameriana (e non solo), implica che i giocatori perdono temporaneamente la propria soggettività per permettere al gioco di emergere in tutta la sua bellezza. Ancora Foster Wallace scrive che nel tennis l’avversario non è il nemico, “è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione”. Anche Tashi/Zendaya lo spiega, “il tennis è un gioco di relazione”, rete che trascende i limiti angusti di ambizioni e obiettivi dei singoli punti per creare qualcosa che vada oltre il desiderio stesso, quel campo estatico, inerentemente plurale, senza persona senza scopo, in cui il desiderio trova simultaneamente il suo compimento e il suo superamento. In questa relazione, in questo gioco, i tre personaggi finiscono per trascendere i limiti angusti di ciò che in via ordinaria si dà come relazione, come gioco. Lo stesso gioco che Guadagnino fa con lo spettatore, portandolo da un lato all’altro del campo filmico, dall’abbandono a soggettive languide che ispirano un’identificazione patemica, fino a oggettive irreali che esplorano il gioco da sotto il campo da tennis, dall’interno di una pallina, indizi di un sapere metadiscorsivo che richiede di identificarsi appunto con la “meta-realtà del gioco che avviene fuori dalla realtà ordinaria” (Huizinga), inseguendo un moto estatico, fuori da sé stessi, dentro il cerchio magico di quel grande gioco che è il cinema. Il cinema di Guadagnino.

Game, set, match.

★★★★☆

Novità e visioni, dicembre 2022

Oltre all’uscita del mio volume su Winding Refn edito da Falsopiano, che se non altro è da acquistare per la bellissima copertina (ma è anche molto funzionale se avete una gamba del tavolo più corta), segnalo alcune recenti visioni.

Bones and All, L. Guadagnino ★★★½☆☆

Adolescente invitata a un pigiama party ha un languorino e sgranocchia il dito di un’amica.

Allora fugge e viaggiando on the road scopre persone con gli stessi gusti: un creep (un indimenticabile Rylance) e un fidanzatino (un dimenticabile Chalamet).

L’amore non sazia, ma spesso ci divora.

Succoso

Triangle of Sadness, R. Ostlund ★★☆☆☆

Comincia come una satira intellettuale e continua come “Selvaggi”.

Ezio Greggio almeno non c’è, ma la commedia, ammiccando con eccessiva disinvoltura al pubblico americano delle pop comedy, va comunque alla deriva.

Più che Triangle of Sadness è un triangolo delle Bermuda in cui Ostlund affonda il suo cinema.

Naufragico

The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft, W. Herzog ★★★½☆☆

Usando il footage pluridecennale di due vulcanologi uccisi da un’eruzione, Herzog compone il solito affresco su una natura fascinosa e terrificante sfidata da personaggi oltre i limiti.

Viene quasi il sospetto che da anni diriga sempre lo stesso film.

Ed è sempre bello.

Sublime

Suspiria, Freud, Jung (Parte 2)

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Suspiria mette a nudo l’aspetto ritualistico della danza, la sua potenzialità di scatenare le forze irrefrenabili dell’inconscio.

(…continua)

Jung concepisce gli archetipi come forze arcaiche universali sedimentate nell’inconscio collettivo, che tornano ad agire attraverso le epoche storiche sotto varie forme, immagini, motivi, comportamenti. Non è esagerato affermare che in Suspiria la caratterizzazione dei personaggi principali è basata in maniera sostanziale sulla caratterizzazione junghiana degli archetipi. Susie assume il ruolo di una forza a-storica ancestrale che restaura l’equilibrio perduto nel quadro di una lotta fra un Es violento e traboccante (Markos) e un Superego impotente (Klemperer), a causa della quale l’Ego (Blanc) e la sua funzione mediatrice rischiano il collasso. La protagonista, che sembra all’inizio rappresentare il percorso di formazione del , assume invece l’archetipo junghiano dell’Ombra, l’irrazionale represso che è la parte più tenebrosa e aggressiva dell’inconscio personale e collettivo.

Ma le associazioni junghiane si moltiplicano: Markos è il Trickster, l’imbroglione cosmico (ma anche la Madre), Madame Blanc e i suoi tratti androgini richiamano al lato femminile della psiche, l’Anima, mentre l’anziano Klemperer, sotto i cui panni si nasconde ancora una volta una donna, rappresenta la controparte maschile, l’Animus (ma anche il Vecchio Saggio). Il sabba simboleggia il processo rituale mediante il quale l’inconscio, da personale, si rivela collettivo, erompendo in tutta la sua furia castigatrice per sancire una ri-equilibrazione funzionale. In un tripudio gore, Susie assurge a figura messianica che dispensa morte e salvezza, scatenando la furia menadica delle streghe in un sanguinolento lavacro rituale.

Si potrebbe discutere a lungo sulla natura benefica, malefica o neutra della mater suspiriorum, che era delineata ben più nettamente nel Suspiria argentiano. L’azione di Susie alterna crudeltà e compassione, creazione e distruzione, risultando dunque più riconducibile al mondo naturale che all’etica umana e alle sue rigide dicotomie. Nel finale dona a Klemperer la grazia dell’oblio, dopo aver affermato “Abbiamo bisogno della colpa e della vergogna, ma non della sua”. Al di là del palese riferimento all’Olocausto è opportuno interpretare queste parole in linea con il suo intervento, volto a punire un potere illegittimo (Markos) e le sue sostenitrici. Chi persegue scopi personali tramite un potere collettivo abusa di quel potere, meritandosi il fardello che ogni abuso porta con sé: la colpa e la vergogna.*

★★★☆☆

 

* I concetti di shameguilt sono alla base di una lunga letteratura antropologica (il caposaldo è Benedict 1949) che indaga il rapporto fra controllo emotivo della collettività e mantenimento dell’ordine sociale.

Suspiria – L. Guadagnino, 2018

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Tilda Swinton si sdoppia: Madame Blanc, il Prof. Klemperer.

(Attenzione: spoiler qui e là)

Non è un remake, quanto piuttosto una riscrittura autoriale carica di tutte le suggestioni che il Suspiria originale non ha mai voluto racchiudere. Se infatti ritroviamo integre la scuola stregonesca, la giovane studentessa americana e la mater suspiriorum, tutto il resto muta in maniera sostanziale, dall’ambientazione urbana (una piovosa Berlino al posto della boschiva Friburgo) alla fotografia balthusiana di Mukdeeprom, che sfrutta un’ampia paletta di grigi (contrastando con lo sgargiante technicolor utilizzato nell’originale da Luciano Tovoli), ai molteplici riferimenti all’Olocausto…

Il Suspiria di Guadagnino è inoltre un denso groviglio di temi dal quale solamente un saggio critico riuscirebbe a estrarre una compiuta sintesi di traiettorie interpretative. Mi limito qui a postare due irrisori contributi per una lettura psicanalitica del film, il primo dedicato a Freud, il secondo a Jung. Diversi critici hanno evidenziato la pertinenza di questi autori sull’opera di Guadagnino. In particolare, la magistrale triplice interpretazione di Tilda Swinton (Blanc, Klemperer, Markos) odora lontano un miglio di triade freudiana.

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Non c’è due senza tre… Madre Markos, ancora Tilda Swinton.

A Helena Markos corrisponde l’Es, che secondo la descrizione di Freud è un’istanza pulsionale sommersa che sa solo desiderare (1923), premendo ciecamente verso la soddisfazione dei propri impulsi. Celata nelle profondità dell’accademia di danza, Markos preme per evadere dal nascondiglio (e dal proprio corpo) al fine di impossessarsi del corpo delle allieve più giovani e dotate. Spetta al Superego il compito di reprimere le pulsioni dell’Es, ruolo assolto dal professor Klemperer, testimone impotente della barbarie nazista (prima) e della malefica congrega di streghe (ora). Klemperer può essere visto come il bagaglio vetero-razionale dell’umanità novecentesca, incapace di ridurre la complessità del mondo in categorie logiche, scalzato dalla furia incontrollabile dell’irrazionalità archetipica. Un Superego ingolfato e appesantito da un’eredità culturale ingenuamente positivista, castrato nella sua capacità di azione (e opposizione) morale.

Se il ruolo dell’Ego spetta a questo punto a Madame Blanc – mediatrice fra le streghe e l’esterno così come l’io media fra pulsioni istintuali e proibizioni sociali –, è tuttavia l’intervento di Susie, autentica mater sospiriorum, che restaura l’equilibrio della comunità stregonesca castigando l’usurpatrice (Markos) e le sue ingenue seguaci. E qui entra in gioco l’eredità junghiana (continua…)