Le micro-recensioni di Aprile

Challengers (L. Guadagnino)
Bravissima tennista interrompe carriera ma prosegue con il doppio fallo.
Slam
★★★★☆

May December (T. Haynes)
Insegnante stupra alunno. Lui la sposa. Attrice la imita. Lui sta al gioco.
Spiegelspiel
★★★☆☆

Priscilla (S. Coppola)
Elvis fa cose. La moglie no.
Queen
★★★½☆☆

“Challengers” di L. Guadagnino

In breve: un film-cipolla, poco compreso in cui Guadagnino, autore poco compreso, si diverte a mettere strati su strati. Strati di tempo, di corpi, di desiderio, il tutto sotto a strati di immagini, immagini di gioventù, di bellezza, di divi e dive, di tennis. Fermarsi al primo strato si può, ma non è consigliato. Guadagnino è uno di quei registi che non si possono guardare con cinismo. Altrimenti si può ridurre anche il tennis al semplice gesto di mandare la palla di là dalla rete. E in fondo, è esattamente quello che è. No?

Triangolo

Sulle tribune Art e Patrick guardano Tashi, alla festa attirano il suo sguardo, nella loro camera d’albergo Tashi li attira uno verso l’altro e rimane a guardarli. “Challengers” è tutto racchiuso in questo triangolo mimetico di giovani che imparano a guardarsi, a desiderarsi, in questo movimento centripeto, spiraliforme, traiettoria che ruota intorno a sé stessa e rimbalza sulla terra rossa del desiderio prima di rimbalzare e rilanciarsi in un’altra spirale, la spirale esotica del tempo, che riavvolge gli anni e gli scontri in un gomitolo bergsoniano (e dunque proustiano) in cui passato e presente non si allontanano come il treno dalla stazione di partenza, ma si sovrappongono come legna alle braci, le braci di un desiderio sempre vivo, bruciante, lesto a riaccendersi.

Linea

Guadagnino accentua questo aspetto ever-pulsante, anacronistico del desiderio tramite la scomposizione della linea narrativa in un’ellissi che avvolge e comprime il passato, in una molla pronta a esplodere nello scontro finale, risolutivo, centro eccentrico della vicenda verso il quale tende tutto il film. Lo accentua anche tramite le violente coupure, elisioni di montaggio che disorientano, che tagliano la testa all’idra del desiderio solo per il gusto di vederlo raddoppiare. Idra, Ercole: la linea è anche quella greca, omerica, del muscolo dell’atleta, del gesto ripetuto, cesellato, della gioventù eroica, della grazia matematica di Policleto, delle geometrie eccentriche del tennis piegate alla forza del desiderio, della lotta tra apollineo e dionisiaco.

A e B

Art è l’apollineo. Biondo, taciturno, riflessivo, adulto anche da adolescente, l’uomo affidabile che si affida alle strutture: l’accademia, il circuito professionistico, la fondazione benefica, la famiglia. Patrick è il dionisiaco. Moro, spaccone, con quel ghigno da schiaffi, adolescente anche da adulto, dorme in macchina, spende tutto, evita ed erode le strutture, seduce e abbandona. L’uno più geometria, l’altro più genio. Eppure, scriveva Foster Wallace che prima di diventare un eccellente scrittore fu un ottimo tennista, ai margini del professionismo, il tennis è genio e geometria, regola ed eccezione tutto insieme. Apollineo e dionisiaco, in un’eterna ghirlanda brillante. Perché l’umano desiderio, come il tennis, ha bisogno di entrambi, perché è fatto di entrambi.

Rete

Questa sfida (challenge) tra amanti-rivali, doppi e diversi, tra Dioniso e Apollo, richiama un’infinita rete di riferimenti. Per dirla alla Julio Iglesias, c’è chi è pirata e chi è signore: Rhett e Ashley in “Via col vento”, Rick e Laszlo in “Casablanca”, Han Solo e Luke Skywalker in Star Wars, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman in “The Master”, più di tutti Marlon Brando e Jean-Pierre Leaud in “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, riferimento importante per Guadagnino. Là come qui era il corpo desiderato e desiderante di Maria Schneider il motore immobile del récit, qui è il corpo divino, divizzato di Zendaya a cominciare il gioco, già in quel primo appuntamento che in realtà non è mai finito, non finirà mai.

Game

Giocare, nella filosofia gadameriana (e non solo), implica che i giocatori perdono temporaneamente la propria soggettività per permettere al gioco di emergere in tutta la sua bellezza. Ancora Foster Wallace scrive che nel tennis l’avversario non è il nemico, “è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione”. Anche Tashi/Zendaya lo spiega, “il tennis è un gioco di relazione”, rete che trascende i limiti angusti di ambizioni e obiettivi dei singoli punti per creare qualcosa che vada oltre il desiderio stesso, quel campo estatico, inerentemente plurale, senza persona senza scopo, in cui il desiderio trova simultaneamente il suo compimento e il suo superamento. In questa relazione, in questo gioco, i tre personaggi finiscono per trascendere i limiti angusti di ciò che in via ordinaria si dà come relazione, come gioco. Lo stesso gioco che Guadagnino fa con lo spettatore, portandolo da un lato all’altro del campo filmico, dall’abbandono a soggettive languide che ispirano un’identificazione patemica, fino a oggettive irreali che esplorano il gioco da sotto il campo da tennis, dall’interno di una pallina, indizi di un sapere metadiscorsivo che richiede di identificarsi appunto con la “meta-realtà del gioco che avviene fuori dalla realtà ordinaria” (Huizinga), inseguendo un moto estatico, fuori da sé stessi, dentro il cerchio magico di quel grande gioco che è il cinema. Il cinema di Guadagnino.

Game, set, match.

★★★★☆

Top 5 – film sui Vampiri

L’imminente rilancio del “Nosferatu” di Murnau in vari cinema sparsi in tutta Italia ha spinto Claudio Confalonieri e il sottoscritto a dedicare ai vampiri una puntata podcast del nostro Radiodrome – per Ondacinema

Insieme a noi Gaetano Pagano -esperto in monster studies e letteratura angloamericana, autore con Francesca Giro del podcast Monstrumana che è diventato anche un libro per Effequ.

Tra le domande che sono uscite, Quali sono i più bei film di vampiri nella storia del cinema?

Qua sotto la mia imprecisa Top 5.

Nosferatu (Murnau, 1922) ★★★★★

Vabbè, questa era facile. Un secolo di età e non sentirlo. Film non-morto, di una modernità impressionante. Praticamente Murnau inventa il montaggio alternato, che è anche una delle tecniche preferite di Nolan, più moderno di così si muore. Inventa anche l’idea che il sole distrugga i vampiri – il Dracula del romanzo di Stoker si muove in pieno giorno. Tuttora un punto di non-ritorno nella rappresentazione della figura del vampiro.

Vampyr (Dreyer, 1932) ★★★★★

La visionarietà di Dreyer ha fatto scuola. A sx, Vampyr. Dx, C’era una volta in America.

Murnau gira un film muto, Dreyer sonoro. Murnau si ispira a Stoker, Dreyer a Le Fanu. Murnau ama i campi lunghi, Dreyer i primi piani. Murnau è figlio dell’espressionismo e va verso il realismo, Dreyer è figlio di un’austerità nordica che deraglia nel surrealismo. Murnau è padrone delle ombre, Dreyer è padrone della luce. Murnau firma un capolavoro, Dreyer anche.

Nosferatu, il principe della notte (Herzog, 1979) ★★★★★

Herzog realizza la missione impossibile di rifare il Nosferatu e rivaleggiare con l’originale. Alcune differenze importanti sono: Uno, la sequenza iniziale sulle mummie messicane di Guanajuato, da cui trapela non solo l’appassionata natura viaggiatrice del regista ma anche la suggestione che il male sia ovunque, in qualunque tempo e continente. Due, il maggior rilievo di un grande cast – Bruno Ganz, Isabelle Adjani e Klaus Kinski. Tre, il grande uso di due strumenti di cui Murnau non poteva disporre, colore e sonoro. Quattro, è più esplicita la relazione tra vampirismo e sessualità. Cinque, viene messa in risalto la solitudine e la vulnerabilità del vampiro, ma anche l’inutilità del sacrificio rispetto a un male che continua malgrado tutto a proliferare, a riprodursi.

The Addiction (Ferrara, 1995) ★★★★☆

Ferrara pesca più dal modello herzoghiano per il suo ritratto dei vampiri newyorkesi, ma ancora di più alla sua esperienza di tossicodipendenza che diventa un’allegoria latente della condizione vampiresca. Già nei Nosferatu, la dipendenza dal sangue costituisce la ragion d’essere del vampiro e la sua grande debolezza. Ferrara restituisce al vampiro la sua debolezza, e dunque la sua umanità, trasformandolo nella metafora ambulante di una condizione che riguarda tutti gli esseri umani: la dipendenza – da sostanze, da abitudini, da convinzioni, da cose che si pensano o si possiedono, da sentimenti, da luoghi, da altre persone. What we are, is eternally with us: i nostri istinti, dunque i nostri vizi, sopravvivono alle morti dei singoli individui, seguitano a tormentare le generazioni come parassiti, come ospiti inquietanti, fino alla fine dei tempi.

Parimerito al quinto posto, non per valore assoluto quanto per la peculiarità di rappresentare interessanti variazioni sul tema, metterei lo spassoso mockumentary What We Do In The Shadows (Clement-Waititi) ★★★½☆☆ e il delirante Thirst (Park Chan-wook), ★★★☆☆ dove un prete-vampiro viene violentato dalla sua amante e accadono altre cose che accadono solo nei film coreani.

Visioni e impressioni di Marzo

Past Lives (C. Song)
Classico schema, lui e lei: lei parte, lui la ritrova anni dopo, ormai c’è l’altro. Ritenta la prossima vita, sarai più fortunato. Reincarnazione coreana di “Lost in Translation”. Senza Bill Murray.
Passato
★★☆☆☆

Estranei (A. Haigh)
Adam si innamora di Harry, ma vede spesso i genitori morti. Quando prova a presentarglielo, non va benissimo. Esposizioni multiple, solitudini singole.
Hauntologico
★★★½☆☆

Dune – Parte II (D. Villeneuve)
La storia la conosciamo tutti. Sarà per questo che Villeneuve si sforza soprattutto di magnificare scenografie, costumi, luci, colori. Tutto il resto manca. Un magnifico mausoleo al cinema, dove il corpo del cinema non c’è.
Arido
★★☆☆☆

Poor Films – Riflessioni su “Povere creature”, femminismo al cinema e complessità

Bella Baxter (Emma Stone) si getta nel Tamigi perché il marito possessivo, il Generale Blessington, l’ha messa incinta. Viene ripescata dal dottor Godwin, un dio padre con il volto scarificato di Willem Dafoe, che la resuscita trapiantando il cervello del feto nel corpo della madre. Quindi viene promessa sposa allo studente di medicina Max McCandles, ma scappa di nuovo insieme al dongiovanni Duncan Wedderburn. Si emancipa anche da lui – leggendo – e finisce a prostituirsi in un bordello parigino gestito da Madame von Kurtzroc (Hanna Schygulla), dove un’altra prostituta, Toinette (Suzy Bemba), la introduce al socialismo e all’amore saffico. Torna a casa dove decide finalmente di sposare Max, anzi lo abbandona all’altare per tornare dall’ex marito Generale Blessington, gli spara, trapianta il suo cervello sul corpo di una capra e torna a casa, dove dio/Godwin è morto, e può finalmente vivere felice insieme a Max, Toinette e il Generale-capra.

Ribellarsi a God (dio), esplorare il proprio desiderio, sfidare le convenzioni sociali, emanciparsi attraverso la lettura, diventare socialisti, ammazzare il patriarcato e vivere felici e contenti in una piccola comune (poliamorosa?). Lanthimos ci mette due ore e mezza per comunicare, nel 2024, il messaggio che una donna deve essere libera. Se fossimo nel ’68 sarebbe sovversivo. Peccato invece che i bersagli sono già, culturalmente parlando, corpi freddi, morti da un pezzo: il padre-padrone Godwin, il macho-dongiovanni Wedderburn, il marito-padrone Blessington, così come la moralità che incarnano, sono già stati decostruiti, fatti a pezzi da cinquant’anni di critica culturale.

Repetita iuvant, per carità. Ma qui Lanthimos sembra involuto, rimasto indietro anche rispetto a lui stesso quando in Kynodontas, tuttora il suo film più bello insieme a The Lobster, partiva dalla stessa base – una famiglia patriarcale iper-tossica – per trarne, lì sì, traiettorie imprevedibili, urticanti. Povere creature ha l’aspetto innocuo e un po’ kitsch di una boule à neige, continuamente agitata da una bufera di gag, forse un souvenir di quel cinema che Lanthimos avrebbe voluto fare, rivoluzionario, liberatorio – il casting di Hanna Schygulla è una spia in questo senso: lei che lavorò con Fassbinder, Ferreri, icona di un film fieramente indipendente, incendiario, è un sigillo semiotico di garanzia autoriale per un film che ne ha estremo bisogno.

Fassbinder e Schygulla

Povere creature sembra al contrario un film in ostaggio: un po’ dell’esibizionismo del suo autore, un po’ delle strategie produttive disneyiane (Searchlight), un po’ dei desideri della sua protagonista. Tutto il film ruota intorno all’interpretazione istrionica ed esilarante di Emma Stone (bravissima), è incurvato anche registicamente intorno al buco nero della sua curiosità, lei che smania per conoscere il mondo e farlo suo, ma con un tale solipsismo che i luoghi del film, le situazioni del film, gli incontri del film, diventano tutti poco più che strumenti di una cronaca di un’emancipazione annunciata, e gli altri personaggi poco più che eunuchi a guardia del serraglio delle sue stravaganze.

È qui che Povere creature perde forza, diventa banale malgrado la sua visualità barocca gridi l’opposto, malgrado la carta sfolgorante con cui Lanthimos ha avvolto il récit, sotto il tunnel chiaroscurale dei fisheye e le scenografie fassbinderiane, ultraposticce: nel farsi apostolo di un femminismo totalmente, inderogabilmente condivisibile, mainstream, un femminismo “cattolico” nel senso greco di katholikos, “universale”, insomma da catechesi, che non pone interrogativi ma è pieno di belle risposte. Le stesse vibes di Star Wars – Episodio IX, siamo in pieno stile Disney, pane amore & dollari: pochi rischi e tanti incassi.

“E dov’è il problema?” mi chiedono. Nessun problema, per carità, ci vuole anche quello. Questione di gusto, preferisco film che vivono di interrogativi piuttosto che di slogan, che indagano la complessità invece di evitarla. La seconda domanda è allora “Ma perché un messaggio semplice ed efficace deve per forza essere un male, soprattutto se è un messaggio giusto?” La risposta che mi viene in mente è “Perché un film non è una pubblicità progresso”, ma poi capisco che è proprio lì il punto, la chiave del successo di Povere creature, il fatto di essere standard nella sua eccentricità, parzialmente scremato dalle ambiguità, altamente digeribile. Operazione pienamente in linea con lo spirito dei tempi, infatti arriva pochi mesi dopo Barbie, altro film divertente, votato a un femminismo militante che compie un immane sforzo di worldbuilding attraverso scenografie, costumi, colori, inquadrature, sopra una sceneggiatura più vicina alle esigenze della didattica che a quelle della narrazione.

Didattica e narrazione però sono agli antipodi: la prima deve essere chiara, semplice, efficace, costruttiva, mentre la seconda rende al meglio quando è oscura, ambigua, complessa, imprevedibile. Abituarsi troppo a usare la prima può compromettere l’efficacia della seconda, che pure ha incarnato, proprio a Hollywood, l’istanza gloriosa e urgente di un femminismo radicale, profondo, in confezioni audiovisive raffinate. Tre esempi.

Numero uno: in Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015), quasi tutti i personaggi sono ibridati con protesi tecnologiche, tutori, apparecchi respiratori, armi, che rappresentano la disconnessione con l’ambiente naturale devastato da una crisi ecologica irreversibile. Furiosa (Charlize Theron), la vera protagonista del film, viene mostrata senza protesi nei suoi momenti più vulnerabili, come se soltanto la capacità di rinunciare alla tecnologia conferisse finalmente un aspetto umano. Il villain del film, Immortan Joe, non ci riesce, muore nel momento in cui Furiosa gli strappa la maschera del respiratore in una sequenza che diventa lo smascheramento simbolico della disumanità del capitalismo e delle sue politiche di sfruttamento indiscriminato, celate sotto la maschera della religione, della retorica familiare, patriarcale, militare, o semplicemente dell’abitudine. Contro il patriarcato di Immortan Joe, fondato sulla violenza e l’accumulo, Furiosa non guida soltanto un autoarticolato imbottito di esplosivi ma anche un modello sociale alternativo ispirato a caratteristiche materne, femminili, di cura e condivisione. Sotto il ritmo martellante dell’action, Fury Road propugna la riconsiderazione del rapporto tra società e natura secondo un’etica femminista e matriarcale,auspicando la conversione dei patriarcati belligeranti (i vari Trump, Putin, l’orrido Iran) a matriarcati sostenibili. Un modello realizzabile soltanto tramite dialogo, cooperazione e uguaglianza – come dimostrano i due protagonisti, Max e Furiosa.

Numero due: lo ricordano in pochi, ma è un vero gioiello Una squillo per l’ispettore Klute (in inglese soltanto Klute, Alan J. Pakula, 1971), se non altro perché la “squillo” Bree Daniels (Jane Fonda) è uno dei personaggi femminili meglio scritti nella storia del cinema, tra i più complessi e stratificati, così come il rapporto di alti e bassi che stabilisce con il taciturno ispettore Klute, un Donald Sutherland dagli occhi acquosi, allampanato, passivo, paziente. Alti e bassi anche in senso registico: Bree cerca sempre di dominare l’inquadratura, di sovrastare le situazioni per avere maggiore controllo come negli incontri con i clienti, poi è abituata a “sballarsi” (to get high), e in un momento di crisi sale le scale che la portano al club del suo ex-magnaccia, la musica grida “lift me up my desire”, sollevami più in alto del mio desiderio, che è esattamente il problema di Bree, l’incapacità di affrontare le proprie emozioni e l’abitudine a usare la sessualità per allontanarsi dagli altri, invece di avvicinarsi; mentre Klute si posiziona sempre in basso, dorme sotto il letto di lei, sul pavimento, aspetta paziente che tutto ciò che è in alto torni a terra, come il cinese seduto sulla riva del fiume, aspetta che passi il cadavere del nemico e che la soluzione del caso gli cada tra le mani, in una lenta e inesorabile caduta. Tutta la regia di Pakula è orientata a questa tensione metaforica degli spazi, che colora il film di una complessità latente, non immediatamente percepibile ma operativa, anche quando nulla sembra accadere. In tutto questo, la progressiva emancipazione di Bree dal loop di droghe e prostituzione, la sua autodeterminazione come donna-soggetto invece che come donna-oggetto non potrebbe avvenire senza l’ascolto della psicologa e quello di Klute, perché la definizione di sé e della propria libertà si articola sempre attraverso il rapporto con l’altro.

Numero tre: in Alien (Ridley Scott, 1979) l’astronave concepita dal designer HR Giger è un involucro organico, un grembo tecnologico che protegge gli astronauti fluttuando in un vuoto cosmico buio e minaccioso. Lo Xenomorfo, parassita che cresce dentro ai corpi degli ospiti e li squarta dall’interno, ingaggia un duello all’ultimo sangue con Ripley (Sigourney Weaver), unica superstite dell’equipaggio. L’orrore della maternità, l’ansia per la penetrazione, l’abietto, la rivendicazione del corpo e della sua integrità, sono presenti e pulsanti nel testo cinematografico, che a distanza di mezzo secolo ispira ancora nuove riflessioni.

Ecco, per me la cosa più fastidiosa di Povere creature è questo suo modo furbo di allacciarsi alla genealogia del femminismo cinematografico succhiandone le icone, le atmosfere, senza mai rischiare, senza proporre nulla di originale. Nudi integrali, omicidi, esperimenti lugubri e distorsioni grottesche a guardar bene non sono che una corazza spinata, sotto la quale si nasconde la polpa tenera e sguiccia del politicamente corretto. Che non ha mai un gran sapore.

Visioni e impressioni di Novembre

Dream Scenario (K. Borgli) ★★★☆☆

Killers of the Flower Moon (M. Scorsese) ★★½☆☆☆

The Killer (D. Fincher) ★★★☆☆

Napoleon (R. Scott) ★★½☆☆☆

Ascesa e caduta di un tiranno. Tanti colori, poche sfumature (classic Scott). Imperiale

C’è ancora domani (P. Cortellesi) ★★★☆☆

Viva il Neorealismo, viva le donne, viva la democrazia. Una paraculata (che funziona). Furbo

Il cielo brucia (C. Petzold) ★★★½☆☆

L’eterno duello tra empatia e intelletto, negli occhi di un giovane scrittore misantropo, tra gli incendi della Pomerania. Brucia tutto. Anche dentro. Caustico

Elenco immagini “NWR. La vertigine del fato”

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Killers of the Flower Moon – M. Scorsese

Anni ’20. Di ritorno dalla guerra, il veterano Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) fa visita allo zio, il ricco “King” William Hale (Robert De Niro), che insieme al nipote Byron (Scott Shepherd), fratello di Ernest, gestisce il potere a Osage County. In una Fairfax che ancora profuma di vecchio West, il mondo va al contrario: i nativi Osage sono ricchi, sotto le loro terre scorre il petrolio, mentre i bianchi lavorano come autisti, maggiordomi, barbieri, operai. King Hale lavora per rimettere un po’ di equilibrio nell’equazione favorendo matrimoni tra bianchi in miseria e ricche possidenti Osage, meglio se di salute cagionevole. Presto arriva il turno di Ernest, che si innamora di Mollie (Lily Gladstone), ricchissima ereditiera con madre anziana e varie sorelle che durano meno di una noce di burro in padella.

Il disegno è chiaro fin da subito: lo zio cospira nell’ombra, il nipote obbedisce senza riflettere. Sia De Niro che DiCaprio si consegnano alla parte con due interpretazioni impeccabili, ma il secondo brilla di più nei panni inediti del veterano, una figura ormai archetipica del cinema USA. Il veterano è un soggetto alienato, senza ruolo in una società che lo respinge, lo emargina, segnato da cicatrici invisibili e dolori senza nome che lo tormentano nel sonno e nella veglia. Ne sono esempi il Joaquin Phoenix di The Master, l’Oscar Isaac di The Card Counter, così come il De Niro di Taxi Driver e The Irishman rimanendo in ambito Scorsese. Sono palpabili anche le suggestioni andersoniane, in particolare There Will Be Blood. Ma più di tutti, questo Di Caprio ricorda il Frank Sheeran del penultimo Scorsese – la stessa espressione bovina, la stessa cieca obbedienza – ma istupidito a livelli coeniani, un personaggio che pare uscito da Fargo o Buster Scruggs.

Sopra, Scorsese; sotto, PTA.

Coerente con questo ultimo filone della sua filmografia, Scorsese come un Livingstone esplora le sorgenti del male, che nascono in quel territorio di confine dove l’assenza dello stato non significa assenza di potere, e ne fa colare un largo, sinuoso affresco in cui le vite degli Osage, persona dopo persona, goccia a goccia, in un lento e inesorabile stillicidio si perdono senza sussulti, senza far rumore, come acqua che si mescola alla terra. Insomma è anche questo un film di mafia, sul potere che si crea in assenza di potere, quando uno stato è colpevolmente assente, e sulla dinamica che trasforma la crudeltà e la violenza da eccezioni in regole, da anomalie ad abitudini, o come in una celebre formula di Hannah Arendt, sulla banalità del male.

Rispetto ad Irishman, tutto costruito secondo un gioco di tensioni, frizioni, accelerazioni, ambizioni che trascinava i protagonisti su equilibri fragili come il ghiaccio, sempre sul punto di essere incrinati o rovesciati, in KotFM Scorsese rimuove ogni attrito al corso dilagante del male. Ernest è una pedina completamente passiva, inconsapevole, privo degli scatti di orgoglio, la lealtà e la freddezza di Sheeran, è la banalità incarnata, non più un soldato ma uno sturmtruppen del male. Passiva è Mollie, che dopo un accenno di lotta si abbandona per tutto il film alle cure velenose di Ernest; passivi gli Osage, che non fanno nulla; passivo lo stato, che interviene troppo tardi; passiva persino la colonna sonora, che lontana dall’esuberanza di Irishman si abbandona al riff liquido di Robbie Robertson. Tutte scelte studiate e consapevoli. Ma la domanda è: funzionano?

Altra immagine andersoniana.

Qui vengono i problemi del film. L’estenuante passività che marca la narrazione si fa sentire in queste tre ore e ventisei minuti dove i moventi sono chiari fin dal principio e gli sviluppi si conoscono in anticipo; anche perché, se pure riuscissimo a distrarci, ci penserebbero i dialoghi a spiegare nel dettaglio tutto quello che è appena successo e che sta per succedere. La maggiore novità formale di KotFM è proprio questa ridondanza, atipica per Scorsese, espressa non solo a livello verbale ma in varie sequenze che vìolano i più sacri princìpi della narrazione, dal principio di economia (less is more) al proverbiale show, don’t tell. Ad esempio il didascalico voice over di Mollie al matrimonio (bastavano le immagini), o la ricostruzione dell’omicidio di Anna, sia verbale che inscenata.

Per carità, è anche così che si firmano i capolavori: Rashomon di Kurosawa è costruito proprio sulla ripetizione dello stesso episodio secondo varie prospettive e vari resoconti, e il senso di mistero è portato avanti proprio dagli scarti e dalle incongruenze. Qui però non abbiamo né gli uni né gli altri, abbiamo una cronaca di morti annunciate, una lentissima anti-epica dalla vocazione anti-spettacolare, materia da serie più che da crime drama. La carenza di sfalsamenti prospettici si evince anche dalla focalizzazione, affidata unilateralmente a tre visi pallidi che rappresentano comunque uno sguardo che non appartiene agli Osage: il massone De Niro, il derelitto Di Caprio, e il mellifluo (bravissimo) Jesse Plemons che da quando compare si prende sulle spalle la focalizzazione e la porta avanti in solitario. Anche questa una scelta, ma siamo sicuri che sia giusta?

In un regista solitamente così abile a tratteggiare indimenticabili personaggi secondari (il Keitel pappone di Taxi Driver, la Teri Garr gelataia di After Hours, il Rickles-direttore di sala in Casinò, lo Steve Graham “Tony Pro” di Irishman) grandi assenti di KotFM sono proprio i personaggi secondari, soprattutto gli Osage, ridotti a poco più che comparse, macchiette. Macchietta l’ubriacone malinconico Henry Roan, macchietta l’ubriacona sbaraccona Anna Kyle, comparse le altre sorelle di Mollie, i capi della comunità e l’investigatore nativo americano di cui manco sappiamo il nome. Forse si voleva inquadrare gli Osage con lo sguardo dei loro carnefici – corpi inutili, passivi, meri depositari di risorse da sfruttare, poco più che futuri assassinati in attesa di un assassino – suscitando una reazione attiva tramite la loro insistita e inverosimile passività. Qui però si rasenta l’assurdo quando Mollie, ormai a conoscenza delle trame che le hanno sterminato la famiglia e logorato il corpo, abbraccia il marito senza mostrare un cenno di reazione, di risentimento, di rabbia – niente.

Questo grande niente è al centro del film. I personaggi, DiCaprio compreso, sono costantemente agiti da trame più profonde, che li fanno sparire nel flusso indolente della diegesi. Spariscono le loro motivazioni, le loro ambizioni, le loro relazioni, rimane soltanto l’intreccio con i suoi mille fili, saldamente attaccati ai personaggi – e chiaramente visibili. A dispetto degli ottimi De Niro, DiCaprio e Plemons, dispiace soprattuto per il ruolo sacrificato di Lily Gladstone, che avrebbe avuto talento e spazio a sufficienza per brillare ed è invece ridotta al vetero-stereotipo della donna da salvare.

L’impressione è quella di un film che, per pudore e deferenza, si sia tenuto in qualche modo a distanza dalla storia che racconta. Lo indicano varie tracce sparse lungo il percorso: diverse inquadrature dall’alto, grandangolari; il meta-finale in cui il regista sale sul palco, mima un radio-show e ci racconta com’è andata; la cornice esotica che racchiude il film, aperto con un calumet della pace e concluso con una tipica danza circolare nell’ennesima inquadratura dall’alto, plongée.

Il titolo, Killers of the Flower Moon, si riferisce alla luna piena di maggio in Oklahoma, la “luna dei fiori” nel calendario Osage, perché coincide con la fioritura di piccoli boccioli stagionali che vengono presto soffocati da altre piante. Una chiara analogia alla strage silenziosa compiuta dai bianchi, ma possiamo anche interpretarla come la definitiva gemmazione di un nuovo approdo della filmografia scorsesiana, uno stile già percepibile in The Wolf of Wall Street e sviluppato nei (per me molto più convincenti) Silence e The Irishman. Insomma, ogni stagione dà il suo frutto. Non è detto che ci debba piacere.

★★★☆☆