Vortex (G. Noé), Memoria (A. Weerasethakul)

I miei due film preferiti del 2022 sono, anche se in maniera diversa, due meditazioni sulla fragilità della vita umana. Il crudelissimo Vortex di Gaspar Noé (★★★★☆) si iscrive in una filmografia già pesantemente marcata dai segni della morte, della violenza, dell’orrore di esistere. Si pensi alla sequenza dello stupro in Irréversible e alle atmosfere onirico-brutali di Enter The Void, in cui esperienze extra-corporee e promiscuità sessuale si intrecciano in un autentico poema post-mortem dedicato alla condizione umana.

Noé è un cineasta fortemente legato al concetto di crudeltà (cruauté) così come la intendeva Artaud: non banalmente una rappresentazione della crudeltà, ma uno “spettacolo cifrato” destinato a manifestare ciò che nella vita stessa si dà come irrappresentabile – la sofferenza, la follia, il sogno, la malattia, la morte. Il luogo della messinscena, scrive Artaud, “è una specie di luogo unico, senza chiusure né barriere, che diverrà il teatro stesso dell’azione”, dove “una comunicazione diretta sarà stabilita tra lo spettatore e lo spettacolo, tra l’attore e lo spettatore”.

Da sempre Noé tende il linguaggio cinematografico alla sua estremizzazione, fino alla rottura del senso, all’afasia totale. Attraverso colore, montaggio, colonna sonora, movimenti di camera e strategie narrative, lancia un assalto sinestetico verso lo spettatore; la poetica di Noé sta al cinema come un gatto sta al suo sacco, dal quale cerca rabbiosamente e disperatamente una via di fuga. E in questa fuga – dai limiti convenzionali del linguaggio, verso una rappresentazione dell’irrappresentabile – trascina il pubblico in un luogo senza chiusure né barriere, luogo di una comunicazione privilegiata su ciò che per natura non si può comunicare e per questo, appunto, crudele.

Vortex, storia di una coppia di anziani che scivola lentamente verso la follia e la morte, è forse il film più umano di Noé, quello più intriso di una impassibile e palpabile pietas per i personaggi: lei (Françoise Lebrun), grandissima attrice d’antan e lui (Dario Argento), grande regista d’altri tempi (che non sa recitare). Coppia perfettamente complementare insomma, che Noé riprende attraverso uno split-screen sempre più marcato e profondo, come a sottolineare l’abisso incolmabile che la follia, la progressiva perdita dell’identità, scava a poco a poco nella quotidianità delle nostre case, delle nostre famiglie – e qui torna ancora Artaud a ribadirci che “Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. […] Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita, come qualsiasi avvenimento prodotto dalle circostanze. Con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita invece di separarcene”.

Più trasognato e meno crudele è Memoria di Apichatpong Weerasethakul (★★★★☆), ma non per questo meno efficace o meno bello. Jessica (Tilda Swinton), inglese che vive in Colombia, si desta di notte per un boato misterioso che somiglia “a una palla di cemento che cade in un pozzo di metallo dentro al mare”. Non si riaddormenterà più. Incontra personaggi, a volte reali e a volte immaginari: archeologi che ripuliscono ossa umane, fonici, pescatori che muoiono e resuscitano a piacimento, fino alla sorpresa conclusiva (che non posso dire), ennesima manifestazione della massima alterità, dopo la morte e il tempo.

Una meditazione potente sull’identità e il suo dissolvimento, realizzata a partire dalla prospettiva liminale del sogno e (anche qui) della malattia; stati di coscienza alterati che (come in Tropical Malady e Cemetery of Splendour) se non altro hanno il merito di disseppellire le tracce di quello che pare un disagio profondo, o forse è semplicemente il sordo dolore dell’esistenza che si ode più nitido quando si ha la pazienza di ascoltarlo.

Christine Gordon
Tilda Swinton

Splendida non-prova per Tilda Swinton, sottratta a sé stessa fino a diventare il proprio avatar. D’altronde la fonte di ispirazione dichiarata era Christine Gordon in I Walked with a Zombie di Jacques Tourneur, non-morta grazie a un rituale vudù. Anche Memoria è in un certo senso un cinema della sopravvivenza, Nachleben direbbe Aby Warburg: ovvero postumo a sé stesso, sottratto alla vita ma in questo modo sottratto anche al tempo, che della vita è il più vorace predatore. Consegnato invece alle immagini senza tempo di un cinema che non racconta, non ricorda, sopravvive a sé stesso come reperto di sé stesso, mera archeologia di un passato immaginario.

Suspiria, Freud, Jung (Parte 2)

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Suspiria mette a nudo l’aspetto ritualistico della danza, la sua potenzialità di scatenare le forze irrefrenabili dell’inconscio.

(…continua)

Jung concepisce gli archetipi come forze arcaiche universali sedimentate nell’inconscio collettivo, che tornano ad agire attraverso le epoche storiche sotto varie forme, immagini, motivi, comportamenti. Non è esagerato affermare che in Suspiria la caratterizzazione dei personaggi principali è basata in maniera sostanziale sulla caratterizzazione junghiana degli archetipi. Susie assume il ruolo di una forza a-storica ancestrale che restaura l’equilibrio perduto nel quadro di una lotta fra un Es violento e traboccante (Markos) e un Superego impotente (Klemperer), a causa della quale l’Ego (Blanc) e la sua funzione mediatrice rischiano il collasso. La protagonista, che sembra all’inizio rappresentare il percorso di formazione del , assume invece l’archetipo junghiano dell’Ombra, l’irrazionale represso che è la parte più tenebrosa e aggressiva dell’inconscio personale e collettivo.

Ma le associazioni junghiane si moltiplicano: Markos è il Trickster, l’imbroglione cosmico (ma anche la Madre), Madame Blanc e i suoi tratti androgini richiamano al lato femminile della psiche, l’Anima, mentre l’anziano Klemperer, sotto i cui panni si nasconde ancora una volta una donna, rappresenta la controparte maschile, l’Animus (ma anche il Vecchio Saggio). Il sabba simboleggia il processo rituale mediante il quale l’inconscio, da personale, si rivela collettivo, erompendo in tutta la sua furia castigatrice per sancire una ri-equilibrazione funzionale. In un tripudio gore, Susie assurge a figura messianica che dispensa morte e salvezza, scatenando la furia menadica delle streghe in un sanguinolento lavacro rituale.

Si potrebbe discutere a lungo sulla natura benefica, malefica o neutra della mater suspiriorum, che era delineata ben più nettamente nel Suspiria argentiano. L’azione di Susie alterna crudeltà e compassione, creazione e distruzione, risultando dunque più riconducibile al mondo naturale che all’etica umana e alle sue rigide dicotomie. Nel finale dona a Klemperer la grazia dell’oblio, dopo aver affermato “Abbiamo bisogno della colpa e della vergogna, ma non della sua”. Al di là del palese riferimento all’Olocausto è opportuno interpretare queste parole in linea con il suo intervento, volto a punire un potere illegittimo (Markos) e le sue sostenitrici. Chi persegue scopi personali tramite un potere collettivo abusa di quel potere, meritandosi il fardello che ogni abuso porta con sé: la colpa e la vergogna.*

★★★☆☆

 

* I concetti di shameguilt sono alla base di una lunga letteratura antropologica (il caposaldo è Benedict 1949) che indaga il rapporto fra controllo emotivo della collettività e mantenimento dell’ordine sociale.

Suspiria – L. Guadagnino, 2018

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Tilda Swinton si sdoppia: Madame Blanc, il Prof. Klemperer.

(Attenzione: spoiler qui e là)

Non è un remake, quanto piuttosto una riscrittura autoriale carica di tutte le suggestioni che il Suspiria originale non ha mai voluto racchiudere. Se infatti ritroviamo integre la scuola stregonesca, la giovane studentessa americana e la mater suspiriorum, tutto il resto muta in maniera sostanziale, dall’ambientazione urbana (una piovosa Berlino al posto della boschiva Friburgo) alla fotografia balthusiana di Mukdeeprom, che sfrutta un’ampia paletta di grigi (contrastando con lo sgargiante technicolor utilizzato nell’originale da Luciano Tovoli), ai molteplici riferimenti all’Olocausto…

Il Suspiria di Guadagnino è inoltre un denso groviglio di temi dal quale solamente un saggio critico riuscirebbe a estrarre una compiuta sintesi di traiettorie interpretative. Mi limito qui a postare due irrisori contributi per una lettura psicanalitica del film, il primo dedicato a Freud, il secondo a Jung. Diversi critici hanno evidenziato la pertinenza di questi autori sull’opera di Guadagnino. In particolare, la magistrale triplice interpretazione di Tilda Swinton (Blanc, Klemperer, Markos) odora lontano un miglio di triade freudiana.

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Non c’è due senza tre… Madre Markos, ancora Tilda Swinton.

A Helena Markos corrisponde l’Es, che secondo la descrizione di Freud è un’istanza pulsionale sommersa che sa solo desiderare (1923), premendo ciecamente verso la soddisfazione dei propri impulsi. Celata nelle profondità dell’accademia di danza, Markos preme per evadere dal nascondiglio (e dal proprio corpo) al fine di impossessarsi del corpo delle allieve più giovani e dotate. Spetta al Superego il compito di reprimere le pulsioni dell’Es, ruolo assolto dal professor Klemperer, testimone impotente della barbarie nazista (prima) e della malefica congrega di streghe (ora). Klemperer può essere visto come il bagaglio vetero-razionale dell’umanità novecentesca, incapace di ridurre la complessità del mondo in categorie logiche, scalzato dalla furia incontrollabile dell’irrazionalità archetipica. Un Superego ingolfato e appesantito da un’eredità culturale ingenuamente positivista, castrato nella sua capacità di azione (e opposizione) morale.

Se il ruolo dell’Ego spetta a questo punto a Madame Blanc – mediatrice fra le streghe e l’esterno così come l’io media fra pulsioni istintuali e proibizioni sociali –, è tuttavia l’intervento di Susie, autentica mater sospiriorum, che restaura l’equilibrio della comunità stregonesca castigando l’usurpatrice (Markos) e le sue ingenue seguaci. E qui entra in gioco l’eredità junghiana (continua…)