After the Hunt – L. Guadagnino

Guadagnino inchioda l’upper class americana in un ritratto patinato, torbido e austero. I costumi à la page, le scenografie manierate, la fotografia sontuosa, tutto converge ad allestire un’immagine colorata e accogliente come un acquario, un’inquadratura da esposizione dove il non-triangolo Roberts-Garfield-Edebiri dà vita alla danza degli avvicinamenti, accerchiamenti e allontanamenti, tornando invariabilmente ad arrendersi sugli onnipresenti letti e divani che affollano il quadro, sopraffatti dall’impasse e dall’inerzia, un’inerzia di classe.

Inerzia che contagia anche gli spettatori, invitati ad accompagnare Julia Roberts nel processo di detection alla ricerca della verità dei fatti. O perlomeno della verità dei sentimenti. Solo che ci sono pochi fatti e pochi sentimenti in questo cinema apertamente contraffatto, che mette in coreografico equilibrio forme e colori con l’intenzione di esporre, di denunciare, l’estrema contraffazione dei sentimenti e dei valori. Un cosmo in cui l’esposizione sociale del trauma, anche qualora contraffatto, diventa un privilegio, la valuta sociale in grado di riscattare uno status privilegiato a fronte dell’idealismo esasperato dell’ideologia #metoo. Che a Yale diventa una caccia alle streghe moderna, un maccartismo etico che si presenta come uno strumento di critica del potere quando invece non fa che prestarsi a un più ambiguo gioco di manipolazione dei suoi equilibri, dei principi che ne regolano la legittimità. Così, cosa resta dopo la caccia – after the hunt ? Esatto, quello che c’era prima.

Un Guadagnino mai così cerebrale, mai così satirico, mai così noioso. ATF è una collana di brillanti inquadrature e brillanti conversazioni che finisce per strangolare lo spettatore con il bagliore opaco e perlaceo della propria artificiosa brillantezza. In cui forse, nemmeno Guadagnino credeva fino in fondo, come segnala il distacco ironico dei titoli di testa – omaggio a Woody Allen, un po’ della sua ironia e dei suoi dialoghi sarebbero serviti come il pane – e dell’intervento finale con cui (finalmente) grida il “cut”.

★★☆☆☆