Roubaix, una luce nell’ombra – A. Desplechin, 2020

Chiasmi di forme (verticale-orizzontale), di personaggi (forti e deboli, poliziotti e criminali), di toni (freddi e caldi). La contrapposizione è una costante della cinematografia di “Roubaix”.

E si apre davvero con una luce nell’ombra il polar (policier+noir) di Desplechin, non solo i variopinti neon natalizi in overlay ma soprattutto la fiamma che avvolge un’automobile, primo dei numerosi casi segnalati al commissariato di Roubaix. Il commissario Daoud (Roschdy Zem) dirige le operazioni con la pazienza e l’astuzia di un giocatore, quale infatti è – perlomeno all’ippodromo.

Se il tormentato tenente Cotterelle (Antoine Reinartz) cerca un’intuizione vincente nei numeri, nelle testimonianze, Daoud si affida invece a una saggezza tattile, la stessa che gli permette di passare al setaccio le persone come mucchi di sabbia, vagliando colpe e sofferenze – le quali, ecco la piccola grande verità di “Roubaix”, si implicano le une con le altre, come luci e ombre.

Paziente, misurato, flemmatico, austero, divertito. Il personaggio del commissario Daoud è una figura che fa breccia, saggio e non arrogante, attivo e mai frenetico. Per Zem un’interpretazione Zen.

Ma più ancora che un esercizio di introspezione e di contrapposizione (psicologica, sociale, estetica, cromatica), “Roubaix” è un tentativo di ricostruzione genealogica della violenza, rinvenuta nel solco procedurale di tecniche investigative che raramente sono state raccontate con tanta ossessiva e angosciosa fedeltà. Il dolce sguardo perso di Léa Seydoux è più eloquente del vuoto che lo colora.

E tutt’intorno quello spaccato urbano che è Roubaix, e che potrebbe non esserlo, perché assomiglia sempre più al possibile futuro di un’Europa dilaniata: povertà, freddezza, lingue che non si parlano, complessi industriali in rovina, direzioni in cui guardare per trovare un punto di fuga, nell’immaginazione o in un passato lontano. Ormai è tutto quel che resta. Basta? Avanza.

★★★½☆☆

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