The Ugly Stepsister – E. Blichfeldt, 2025

Il modello irraggiungibile troneggia nello specchio; a dx, Elvira è prigioniera dello specchio in cui è riflessa l’immagine di Agnes. Destino prefigurato in un’inquadratura

“The Ugly Stepsister” (TUS) è un film sull’eterno duello tra la forma e la materia. Forma che identifica l’ideale, l’astratto, il canone etereo della bellezza che trascende ed ascende la materia; e la materia che invece rifiuta ogni sublimazione, si aggrappa ostinatamente alla carne, ai fluidi corporei, si ostina a cadere e colare in cieca obbedienza alla legge di gravitazione. Da un lato le immagini sognanti e sfocate di Elvira, “la brutta sorellastra”, una glassa audiovisiva che impasta colori tenui, bokeh e riff di musica elettronica; dall’altro lato i genitali di Cenerentola-Agnes, dello stalliere in piano medio, il primissimo piano sul seme che cola.

La dinamica tra Agnes ed Elvira si riassume nella scena in cui la prima imbocca la seconda con forchettate di spaghetti che assomigliano e vermicelli, mentre Elvira si fa il bagno e legge poesie. “Cosa simboleggia il serpente che tutto divora?” chiede sognante; “Il pene” risponde Agnes con schietta semplicità. La risposta scandalizza e indispettisce Elvira. Mentre Agnes conosce la sessualità e il lavoro, ha il cinismo dell’età adulta, Elvira invece legge poesie, sogna a occhi aperti, si fa manipolare da una madre ambiziosa e ingombrante. In altre parole, Agnes conosce la realtà, mentre Elvira conosce solo la forma che la realtà dovrebbe avere, il modello che orienta e condiziona le sue scelte.

Idealità e realtà

Difatti la troviamo spesso ripresa con un modello irraggiungibile nell’inquadratura, talvolta la madre, talvolta Agnes. Come NWR, ma con effetto diverso, Blichfeldt ricorre tantissimo allo zoom-out, movimento che si allontana dal soggetto per riassumerlo in un quadro più ampio. In TUS, questa scelta registica sortisce l’effetto di rimpicciolire e isolare ancora di più Elvira, rendendola preda di quelle dinamiche invisibili e alienanti che l’assoggettano a un modello di bellezza tirannico, irraggiungibile. Reificata, cioè resa oggetto, fino al punto di venire scartata dalla madre come un pacco (sotto).

La bellezza è da sempre una valuta corrente nel mercato sociale, dalla kalokagathia dei Greci (Achille il bello, Tersite il brutto) fino ai giorni nostri. Così Elvira, plasmata dalla madre come una moneta dal fabbro al fine di acquistare uno status più elevato, cerca inghiottendo un uovo di tenia una metamorfosi alchemica che la trasfiguri in pura idealità di bellezza, offrendo un ironico e angosciante contrappunto all’idea che “quello che conta è all’interno”; non un elogio della profondità interiore, ma dei trucchi che consentono alla volgarità dei corpi di aspirare alla nobiltà della forma, anche quando questi non lo consentirebbero.

a sx, Borowczyk

La bellezza di Elvira è infatti, come accade in The Neon Demon di Refn, artificiale, e perciò inautentica. Offrendo una provocazione degna di Walerian Borowczyk, oltre che un divertito omaggio al suo cinema, la regia sfacciata di Blichfeldt propone invece nel campo/controcampo in primo piano del culo di Agnes e del pene dello stalliere, organi genitali che si parlano (e si trovano) una sintesi aristotelica della perfetta unione di materia e forma, un sinolo di bellezza che però è per sua natura inscindibile dalla sua natura contaminante, dalla sua virtù pornografica e perciò non idealizzabile, refrattaria all’immaterialità dell’astratto.

Per questo non è sufficiente l’analisi di De Corinth sullo Specchio Scuro, che parla di cinema ossessionato dall’oggetto, citando la scarpetta, l’uovo di tenia. De Corinth confonde l’oggetto in quanto oggetto con l’oggetto dell’inquadratura, che spesso in TUS è una parte del corpo – genitali, natiche, occhio, naso, piede. Quello di Blichfeldt non è uno sguardo ossessionato dall’oggetto, dal feticcio, come quello di NWR; è piuttosto uno sguardo reificante, oggettivante, (proprio nel senso classico marxiano della Verdinglichung, il “trattare come oggetto ciò che non lo è”) che trasforma il corpo di Elvira nel piombo dell’alchimista, nella creta di Pigmalione.

Per Elvira, l’esperienza della metamorfosi è tutto il contrario della sessualità di Agnes: cruda, dolorosa, e solitaria. Espressa attraverso immagini fulciane, e altre che ricordano il più recente The Substance, anche molto vicino come tematiche, TUS rappresenta una parabola di come la bellezza dell’ideale possa pervertire e distruggere la realtà più di qualsiasi ideologia materialista: è in nome dell’uguaglianza che Robespierre tagliava le teste; è in nome della pace che gli USA tiravano l’atomica sul Giappone; è in nome della sicurezza che Israele commette un genocidio contro i Palestinesi. Uguaglianza, pace, sicurezza sono ideali meravigliosi, ma la realtà diventa atroce quando si piega a un’idealità priva di misura, priva di giudizio.

L’obiettivo polemico del film è ovviamente l’idealità della bellezza, che attraverso le coordinate culturale dei patriarcati impone alle donne un preciso modello di comportamento e di espressione, di cui l’accademia è una fedele emanazione: un’istituzione gestita da donne, per donne, allo scopo di compiacere gli uomini. Blichfeldt si scaglia contro la virtù alienante della bellezza ideale: l’alienazione descrive una perdita della libertà sottile, impercettibile, al contrario della coercizione che indica una perdita della libertà evidente e manifesta. Poi, la coercizione viene dall’esterno, l’alienazione deriva dall’interno: lo scandalo dell’alienazione è che viene scelta dagli stessi individui che ne sono vittime. Dall’interno, appunto: come l’uovo di tenia.

esposizione del corpo femminile tra TUS e The Neon Demon

Non è singolare in questo senso che tutti questi horror sulla bellezza – Neon Demon, The Substance, La morte ti fa bella , Sick of Myself e ora TUS – recuperino il paradigma metaforico dell’incorporazione. Scrivevo già qualche anno fa nel mio libro su NWR

il paradigma dell’incorporazione: ciò che è fuori viene messo dentro, sopprimendo l’antagonismo attraverso una comunione violenta. Che cos’è in fondo anche il rituale della comunione – mangiare il cadavere di Dio – se non un rituale che si sforza di riunire l’interno e l’esterno, l’umano e il divino, l’immanente e il trascendente, la vita e la morte? In questa Wonderland capovolta, ogni donna è ostaggio di un modello di bellezza impostole dallo specchio. Il linguaggio della pubblicità, della moda e della cosmesi predica che l’invecchiamento è negativo, l’attività fisica è positiva, la peluria va eliminata, gli umori corporali vanno coperti da profumi sintetici, l’assenza di trucco e messa in piega indica sciatteria, e infine che il necessario maquillage, così come la pelle, deve essere stabile e omogeneo, non deve essere soggetto a deterioramento: rossetti, deodoranti, mascara, ciprie, smalti e gel devono durare.

Le pillole, come in Matrix, aprono ponti o finestre o voragini tra dimensioni incomunicabili. In TUS, si tratta di un uovo di tenia che provoca in Elvira una gravidanza al contrario, un dimagrimento sterile che l’avvicina alla morte e sovverte gli equilibri naturali: mentre Agnes si dispera davanti al corpo putrefatto del padre, da cui escono i vermi, Elvira ingerisce i vermi di proposito per innescare una rinascita. Tutti i corpi umani vivono, muoiono e diventano vermi, mentre il corpo di Elvira inizia a vivere, socialmente parlando, solo dopo aver ingerito il verme solitario.

sopra Matrix, pillola rossa o pillola blu? sotto ancora the Neon Demon e il pasto oculare

A essere ingerito, spesso inconsapevolmente, è il paradigma alienante di una bellezza ideale che sfigura e trasfigura la donna secondo modelli patriarcali che sono in parte astratti, intangibili, eppure nocivi e radicati come la tenia dentro Elvira. Il montaggio di Blichfeldt alterna l’espulsione del verme a una fellatio della madre di Elvira: anche qui il pene diventa un verme, un oggetto da ingerire per soddisfare il piacere alienante di vedersi compiaciute della propria alienazione attraverso gli sguardi dell’uomo. Al contrario la sessualità di Agnes-Cenerentola, disinibita e animalesca, esprime una cifra consapevole ed emancipatoria, oltre che recuperare come nota giustamente De Corinth, l’origine della fiaba in “Cucendron, un gioco sul francese cul e cendre – letteralmente “culo di cenere” o “culo sporco”. Anche nelle origini occidentali del nome si nota una fusione tra sessualità femminile e uno stato di disonore o disgrazia”.

Eppure non va tanto meglio alla nostra Cenerella, costretta a sposarsi per abbandonare il nido, ad abbandonare il suo vero amore a.k.a. lo stalliere, a sottoporsi al cursus honorum di tutte le varie arti da madamigella tra gavotte e riverenze, e a farsi adottare da un principe poeta che, come dimostra una sequenza a metà film, è tutt’altro che principesco e poetico nei modi e nei pensieri. Nel denunciare l’artificialità dell’ideale della bellezza così spesso trasposto e celebrato nel modello patriarcale, TUS si lega forse a un modello meno ambiguo e più manicheo rispetto alla poetica cronenberghiana da più parti invocata per descrivere Blichfeldt. Ma per un esordio è tanta roba.

After the Hunt – L. Guadagnino

Guadagnino inchioda l’upper class americana in un ritratto patinato, torbido e austero. I costumi à la page, le scenografie manierate, la fotografia sontuosa, tutto converge ad allestire un’immagine colorata e accogliente come un acquario, un’inquadratura da esposizione dove il non-triangolo Roberts-Garfield-Edebiri dà vita alla danza degli avvicinamenti, accerchiamenti e allontanamenti, tornando invariabilmente ad arrendersi sugli onnipresenti letti e divani che affollano il quadro, sopraffatti dall’impasse e dall’inerzia, un’inerzia di classe.

Inerzia che contagia anche gli spettatori, invitati ad accompagnare Julia Roberts nel processo di detection alla ricerca della verità dei fatti. O perlomeno della verità dei sentimenti. Solo che ci sono pochi fatti e pochi sentimenti in questo cinema apertamente contraffatto, che mette in coreografico equilibrio forme e colori con l’intenzione di esporre, di denunciare, l’estrema contraffazione dei sentimenti e dei valori. Un cosmo in cui l’esposizione sociale del trauma, anche qualora contraffatto, diventa un privilegio, la valuta sociale in grado di riscattare uno status privilegiato a fronte dell’idealismo esasperato dell’ideologia #metoo. Che a Yale diventa una caccia alle streghe moderna, un maccartismo etico che si presenta come uno strumento di critica del potere quando invece non fa che prestarsi a un più ambiguo gioco di manipolazione dei suoi equilibri, dei principi che ne regolano la legittimità. Così, cosa resta dopo la caccia – after the hunt ? Esatto, quello che c’era prima.

Un Guadagnino mai così cerebrale, mai così satirico, mai così noioso. ATF è una collana di brillanti inquadrature e brillanti conversazioni che finisce per strangolare lo spettatore con il bagliore opaco e perlaceo della propria artificiosa brillantezza. In cui forse, nemmeno Guadagnino credeva fino in fondo, come segnala il distacco ironico dei titoli di testa – omaggio a Woody Allen, un po’ della sua ironia e dei suoi dialoghi sarebbero serviti come il pane – e dell’intervento finale con cui (finalmente) grida il “cut”.

★★☆☆☆

Una battaglia dopo l’altra – P.T. Anderson, 2025

La rivoluzione è sempre per tre quarti fantasia e per un quarto realtà

Bakunin

1. Storia e realtà

Strutturiamo l’analisi intorno a questa citazione di Bakunin, partendo da quello spicchio di rivoluzione, quel quarto, quel 25%, che non può essere altro che la Storia, quella con la S maiuscola, base di partenza per un’allegoria neanche troppo nascosta dell’America di questi anni, scossa dal trumpemoto, lacerata da conflitti razziali, attizzata da logge suprematiste che operano alla luce del sole, resa fragile e incupita da politiche sociali, quelle neoliberiste, che hanno esasperato le polarità e le disuguaglianze. Difatti il film si apre con un personaggio, e un nome – Perfidia Beverly Hills – che rivela, come spesso accade nella toponomastica andersoniana, temi e suggestioni latenti: Beverly Hills è dove vivono le star di Hollywood, tra i luoghi più ricchi del pianeta, e Perfidia è contemporaneamente l’imposizione neoliberista di tale modello economico e la reazione delle masse indigenti a fronte di tanto squilibrio.

Mentre tanti altri registi, l’ultimo dei quali è Ari Aster con Eddington, ma anche Alex Garland con Civil War, rimangono su un piano strettamente allegorico o distopico approcciando con più o meno ironia il genere della satira, PTA tende come suo solito al pastiche, il genere postmoderno per eccellenza dato che indica la mescolanza di tutti i generi. Anche se One Battle After Another (OBAA) è soprattutto un film d’azione, troviamo in Di Caprio e soprattutto Del Toro due maschere da commedia, la prima più da fratelli Coen e la seconda più da Wes Anderson (altro autore che ha da poco realizzato la sua satira sul regime neoliberista); troviamo nel deserto una tipica ambientazione Western; troviamo nelle tematiche una deriva drammatica, nelle vicende narrate un’inclinazione fantascientifica. Come scriveva Jameson, il papà teorico del postmoderno, il genere postmoderno è marcato da “il cannibalismo casuale di tutti gli stili passati, il gioco dell’allusione di stile arbitraria, della dimensione retrospettiva indispensabile a ogni ri-orientamento vitale del nostro futuro collettivo – è divenuto nel frattempo una vasta collezione d’immagini, un affollato simulacro fotografico” [the random cannibalization of all the styles of the past, the play of random stylistic allusion, retrospective dimension indispensable to any vital reorientation of our collective future – has meanwhile itself become a vast collection of images, a multitudinous photographic simulacrum].

Cosa rimane allora della Storia generale in questa storia particolare che è OBAA?

2. Fantasie di Potere

Perfidia (Taylor), la pasionaria che guida French 75 alla battaglia e poi scompare dalla vita pubblica e anche da quella privata, familiare, che la lega a Ghetto Pat (Di Caprio) e alla neonata figlia Willa (Infiniti), incarna l’utopia, il sogno rivoluzionario, il luogo e la società che non esiste ancora, e difatti rimane irragiungibile da tutti i personaggi che, in un moto forsennato, ariostesco, si sforzano di catturarla: lo stesso Ghetto, la stessa figlia, e il colonnello Lockjaw (Penn) che rappresenta la pulsione opposta e contraria a Perfidia, un principio d’ordine, gerarchia e stabilità.

Tutti i film di PTA raccontano conflitti di potere, spesso attraverso famiglie surrogate o disfunzionali: la famiglia è la più elementare struttura di potere, l’atomo del potere. OBAA non fa eccezione. Intorno al vuoto strutturale lasciato da Perfidia si muovono vanamente vari personaggi cercando di riempirlo. Ghetto, adulto e ormai rassegnato, imbolsito, fiaccato dalle droghe, è il simbolo della generazione adulta che ha perso la forza e la fiducia nel cambiamento. Lockjaw, motivato da ideali gerarchici, repressivi e violenti, manifesta le forze visibili (esercito) e invisibili (massoneria) che agiscono in nome di un’utopia elitaria, esattamente il contrario dell’utopia egalitaria per cui si batte Perfidia. Willa infine rappresenta la forza e la speranza delle nuove generazioni che lottano per il cambiamento e lotteranno finché non diventeranno adulte, per poi consegnare la fiaccola della lotta alla generazione successiva.

Se Lacan definisce nome-del-padre l’operatore che assolve una funzione legislativa, proibitiva, autoritaria all’interno delle dinamiche psichiche, qui potremmo piuttosto parlare di nome-della-madre, ovvero Perfidia, che tramite la propria assenza impone alle identità che la circondano di strutturarsi intorno a quel vuoto che lei stessa ha creato. Ecco allora Lockjaw, che alla plain-view del Petroliere e al fallo eretto, anzi di legno, wood-cock del Filo nascosto, aggiunge un ulteriore dettaglio, la mascella serrata di un coccodrillo, lock-jaw, alla galleria di personaggi paterni e autoritari disegnata da PTA. Sean Penn, che gioca tantissimo proprio con la mimica facciale in questa prova magistrale, incarna il SUPEREGO, ovvero l’internalizzazione dell’autorità paterna, mentre Di Caprio manifesta invece l’ID, la componente istintuale guidata dal principio di piacere che cerca immediata gratificazione. Questo conflitto non è nuovo affatto nella filmografia di PTA (Phoenix vs. Seymour Hoffman in The Master; Doc vs. Bigfoot in Inherent Vice…). A Willa rimane il ruolo dell’EGO, e infatti è chiamata a scegliere tra due padri antipodici e antagonisti nel percorso di costruzione della propria identità. Non sono quindi i padri a riconoscere i figli ma i figli a riconoscere i padri. Il riconoscimento però necessita non di una traccia biologica quanto ideologica: questo il senso della scena in cui Willa, con la pistola in mano, intima a Ghetto di pronunciare le parole d’ordine rivoluzionarie. La condivisione di valori, ideali, conta più del sangue, anche nei rapporti familiari. La storia di ogni famiglia infatti è la storia di una rivoluzione, perché i rapporti di potere gradualmente si invertono e i padri invecchiando diventano, per dirla alla Gordon Gekko, “le ossa su cui i figli affilano i denti”.

3. Fantasie cinefile

Cominciamo dalla più evidente perché è una citazione dichiarata, quella del capolavoro di Gillo Pontecorvo La Battaglia di Algeri, film del 1957 che viene non soltanto mandato in onda nel salotto di Di Caprio, ma sembra anche ispirare il nome dell’organizzazione rivoluzionaria French 75 – francese, come la dominazione sull’Algeria, e 75, come l’anno di uscita del film di Pontecorvo al contrario. Per il resto, come dice bene l’amico e collega Giuseppe Gangi su ondacinema, PTA cuce la cinefilia nel tessuto audiovisivo occultandola come fa Reynold Woodcock con i suoi abiti di sartoria nel Filo nascosto, invece di esibirla ammiccando come ad esempio preferisce fare Tarantino.

La battaglia di Algeri viene recuperata anche nella costruzione degli ambienti urbani durante la guerrilla, mentre le architetture militari e massoniche dei Xmas Adventurers ricordano piuttosto i volumi architetturali di Pakula, vasti, simmetrici e incombenti come l’autorità che manifestano. Il personaggio di Penn è una chiara parodia dell’autoritarismo militare usa, incarnato al cinema da personaggi come il generale Turgidson di Strangelove o il generale Patton, entrambi interpretati da George C. Scott con cui Penn ha una inquietante somiglianza. Di Caprio è modellato invece alla Big Lebowski o alla Joaquin Phoenix in Inherent Vice. Il rapporto tra Ghetto e Perfidia ricorda le dinamiche di Bonnie e Clyde di Arthur Penn, un connubio esplosivo di libido, carica erotica, e destrudo, carica distruttiva, che si aizzano a vicenda producendo devastazioni come accade pure in Fight Club (Fincher).

Due influenze sorprendenti sono invece 1) l’altro Anderson, Wes, nel ritratto comico di Ghetto e Sensei (Del Toro), ma anche nel ritmo forsennato, nella colonna sonora incalzante e nelle simmetrie spaziali che sembrano comprimere e dilatare la loro possibilità di azione; e 2) Bullitt, poliziesco con Steve McQueen che secondo molti cinefili racchiude la sequenza di inseguimento in auto più bella della storia del cinema, tra i saliscendi di Frisco.

4. Fantasie di spazi

È nella gestione degli spazi che PTA sfrutta al massimo le potenzialità del medium, esprimendo tutto il proprio talento. In OBAA sembra voler recuperare l’immagine-movimento del cinema classico secondo i crismi della continuità, generando un campo che non appare mai determinato dagli elementi che ne suggeriscono la chiusura, ma costantemente propulso dalla plasticità delle inesauribili carrellate, risucchiato dalla durata reale dei piani sequenza e rilanciato dal montaggio alternato e da giochi continui di dissolvenze, lanciato verso la dissoluzione degli equilibri e delle gerarchie generate dalle stesse immagini, motivato a incontrare la propria eccentricità, il costante traboccare dal proprio senso.

Le tre sequenze magistrali in questo senso sono la sequenza d’apertura che racconta l’infiltrazione di French 75 nel campo militare; la fuga di Ghetto e Sensei tra i meandri urbani; e l’inseguimento finale nel deserto, sequenze spaesanti abitate da spazi eccentrici, non mappabili, dinamici e dispersivi.

Questo movimento altmaniano, votato alla dispersione, alla dépense, è esso stesso una dichiarazione politica che si oppone al moto centripeto e gerarchico che vorrebbe, come dicono i Xmas Adventurers, “controllare i confini per salvare il mondo”. È un cinema che, usando Pontecorvo come materiale archeologico, da una parte dichiara l’impossibilità del cinema di fare politica, e ancora di più, l’impossibilità di fare politica per un’epoca – la nostra – ormai irretita dalle maglie di un edonismo superficiale, di un intrattenimento ubiquo e assuefacente – tema cruciale di un alto grande romanzo postmoderno, Infinite Jest di DFW. Se è vero quello che dice Deleuze, che ogni grande film americano è un remake di Birth of a Nation, OBAA potrebbe concedersi un titolo alternativo – Birth of a Revolution, offrendosi come manifesto sia poetico che metapolitico – di come arte e resistenza civile siano capaci, pur represse, rinchiuse e marginalizzate, di rinnovare i tempi e le forme del vivere.

“Cloud” di Kiyoshi Kurosawa

Yoshii è un operaio che nel tempo libero lavora come rivenditore online. In principio strappa un prezzo da sciacallo a un mercante di macchinari medici e realizza un profitto notevole. Questo affare gli dà fiducia, lo spinge a rifiutare una promozione sul posto di lavoro, licenziarsi e mettersi in proprio. Affitta un’ampia casa che funge anche da ufficio e magazzino, si trasferisce lì con la compagna e assume un’assistente. Negli affari diventa sempre più spregiudicato. Il suo avatar virtuale, Ratel, catalizza la rabbia di molti clienti truffati. Preludio alla violenza endemica che si scatena nella seconda parte del film.

Un primo tema di “Cloud” è la corrosione del confine tra lavoro e vita privata. Già 25 anni fa, il sociologo Richard Sennett evidenziava le trasformazioni del tardo capitalismo (The Corrosion of Character), dove le corporazioni sono diventate diffuse, instabili e decentrate, e la vita del lavoratore è diventata flessibile, precaria e meccanizzata. La rivoluzione digitale ha migliorato questo processo – nel senso che rende ancora più facile lo sfruttamento. La tecnologia, in particolare la virtualità, è da sempre una preoccupazione centrale nella filmografia di Kurosawa. L’aspetto pervasivo del capitalismo, l’ossessione per il profitto, sono resi cinematograficamente attraverso vari espedienti. La conflazione di esistenza privata e professionale viene raccontata attraverso la scenografia. Le abitazioni che sembrano magazzini, magazzini che sembrano abitrazioni. Ambienti senza calore, arredati da materiali industriali come cartone, cemento, acciaio, l’alluminio delle scaffalature. Questo è l’ecosistema in cui vive lo Homo Oeconomicus (Ho.Oe.). Lo Ho.Oe. di Kurosawa è egoista, avido e irrazionale, in contrasto con la concezione originaria (J.S.Mill) di Ho.Oe. come esempio of razionalità calcolatrice, uno che dovrebbe agire sempre per massimizzare la convenienza da consumatore e il profitto da produttore di capitale. Yoshii sembra piuttosto godere della vendita per la scarica adrenalinica, quasi orgasmica, che gli provoca. Una motivazione estetica, sensuale, biologica forse, ma non un calcolo razionale.

In “Cloud” il profilmico è spesso suddiviso in riquadri dove gli oggetti si accastano in maniera disordinata, allegoria dell’accumulo compulsivo che contraddistingue la nostra epoca. Viviamo un sistema in cui, dotati o meno, si nasce tutti consumatori e tutti mercanti, come testimonia l’ubiquità di servizi come Amazon, eBay, Vinted, Alibaba, ma anche lo status crescente di applicazioni come Glovo, Deliveroo, Foodora, Foodpanda, InstaShop, GrubHub. Ma è anche un’epoca in cui, come scrivevano Marx e Engels nel manifesto, “tutto ciò che è solido sembra dissolversi nell’aria”, e il commercio è ormai miscelato all’ossigeno che respiriamo, permea ogni aspetto della quotidianità. A cominciare dal titolo, “Cloud” scritto in katakana, ovvero non le nuvole ma il cloud storage, archivio virtuale accessibile da qualsiasi postazione e in qualsiasi momento nel mondo, smaterializzato eppure onnipresente, virtuale eppure eterno, un caveau senza denaro, eppure in grado di gestire e pilotare enormi flussi finanziari. Varoufakis parla a proposito dell’età contemporanea di Cloud Capitalism. In “Cloud”, la sparatoria finale ha luogo tra le rovine di quella che sembra una vecchia fabbrica, come a suggellare il crollo definitivo del capitalismo industriale.

Questo nuovo capitalismo, quello in cui viviamo, in che cosa consiste? Osserviamo Yoshii. Si licenzia dalla struttura aziendale, si mette in proprio, rileva a basso costo lotti di merci in liquidazione e li rivende sul web a prezzi maggiorati. Il suo commercio non ha un core business, non ha volto né sede fiscale, è un affarismo avido e parassitario che non produce nulla, semplicemente specula sugli eccessi di domanda e genera profitto dalle sacche di ristagno commerciale e gli angoli bui del mercato, accrescendo come una muffa. L’attività di Yoshii ha molte similitudini con il mondo della finanza, anch’esso decentralizzato, spregiudicato, senza volto, improduttivo, basato sulla speculazione e mai così pervasivo come oggi. Non solo la recente crisi economica 2007-8 è stata causata da una bolla speculativa finanziaria – quella dei cosiddetti subprime, con una recessione globale e milioni di persone in difficoltà. Non solo i debiti provocati dalle scommesse finanziarie delle banche sono stati in larga parte pagati con i soldi dei contribuenti. Ma negli anni che hanno seguito la crisi, compresi questi anni, i governi di USA, UK, EU e Giappone hanno preseguito rigide politiche di austerity mentre finanziavano trilioni di dollari alle banche, che intanto li hanno di nuovo investiti nel mercato finanziario, accumulando di nuovo enormi profitti e non restituendo nulla.

Il nickname di Yoshii, Ratel, è un animale noto per la sua indole aggressiva e temeraria, il tasso del miele, un predatore capace di respingere animali più grossi come leoni o iene, e anche di attacchi selvaggi contro l’uomo. Ratel funziona come simbolo che esprime la bestializzazione degli individui in una società dominata dalla sola ragione eocnomica. Significativo che l’assistente e discepolo di Ratel, Sano, presenti sé stesso come qualcuno privo di talento, privo di capacità, disinteressato alle avances sessuali della fidanzata di Ratel, Akiko. Uno Homo Oeconomicus insensibile agli stimoli sociali, sentimentali e cuilturali, che mette a fuoco la realtà solamente in termini economici, come avviene in questa scena in cui Yoshii e Muraoka discutono di affari.

Nell’epilogo, Yoshii e Sano guidano verso un cielo crepuscolare. Sano incoraggia Yoshii a preoccuparsi solo di inseguire il profitto: tutto può essere raggiunto, anche la fine del mondo. Yoshii risponde, allora è così che si entra all’inferno. Una critica punto velata della mentalità all’origine della crisi ecologica globale. Kurosawa descrive un clima di rassegnata disperazione, certificando l’impossibilità di cambiare il corso degli eventi. L’inferno consiste nella ripetizione ossessiva di pulsioni che intrappolano l’individuo negli ingranaggi sempre più alienanti di una società dominata dall’ossessione del profitto. I personaggi non sono poi così dissimili dagli spettri di Pulse, il suo capolavoro: identità in dissoluzione nelle tecnocrazie finanziarie dell’età contemporanea, semplici ombre di persone. Questo lo testimonia anche il modo in cui l’azione – sparatorie, fughe, inseguimenti – viene diretta in “Cloud”: un’azione goffa, imbarazzata, grossolana, esitante. L’incapacità di agire fa parte anche di noi. Siamo ormai talmente abituati, indociliti, rassegnati, irretiti, ipnotizzati da questo stato di cose che nemmeno la critica cinematografica, perlomeno quella che ho letto, sembra essersi resa conto delle implicazioni politiche di “Cloud” di Kiyoshi Kurosawa. A metà tra Giuliacci e Nostradamus, “Cloud” è una foschissima previsione. Kurosawa parla della grande nuvola di numeri che ci avvolge come un gas tossico e irrespirabile, capace di occultare i suoi effetti letali dietro la propria intangibilità.

★★★★☆

“Anora” di Sean Baker – Un successo inspiegabile?

Commentando i pronostici degli Oscar 2025, Anna Maria Pasetti del Fatto quotidiano scrive che “le chance di The Brutalist sarebbero dovute aumentare. E invece si è avvertita un’inversione di tendenza a penalizzare questo titolo. Contestualmente si sono rafforzati i favori per il pseudo-indie e sopravvalutato Anora che, oltre all’inspiegabile Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, si è portato a casa il significativo Directors Guild Award, cioè il premio attribuito a Baker proprio dai colleghi”.

Peccato che Pasetti spenda più parole a sminuire una cinematografia così originale come quella di Sean Baker che a illuminarne i punti di forza. In realtà non credo che sia così “inspiegabile” il successo di Anora, né dal punto di vista del valore del film né da quello delle logiche di produzione e promozione che spesso stanno dietro alle scelte degli Academy. Comunque, a seguire due o tre cose che so di lei – Anora – e sulla filmografia di Baker.

Dropout. I personaggi di Baker sono tutti o quasi tutti dropout, figure tipiche del cinema americano: coloro che cadono fuori (drop-out) dalle rappresentazioni convenzionali della società, che non hanno un ruolo definito e vivono per varie ragioni ai margini del contratto sociale, non solo dal punto di vista economico ma anche di status. Travis Bickle/De Niro in Taxi Driver di Scorsese appartiene a questa categoria, così come il Gazzarra di Killing of a Chinese Bookie di Cassavetes. In Baker sono quasi sempre personaggi femminili, madri single o transessuali, spesso coinvolte nel mercato del porno o della prostituzione.

Fine delle illusioni. L’ex pornodivo protagonista di Red Rocket (che avevamo elogiato in pochi) pedala sognando Hollywood mentre sullo sfondo scivolano senza far rumore i killing fields texani, dove sono stati ritrovati decine di corpi di giovani donne, omicidi mai risolti. La madre single che si prostituisce protagonista di Un sogno chiamato Florida vive a poca distanza da Disney World, Orlando. Anora è una giovane immigrata newyorkese di seconda generazione che entra in contatto con il mondo lussuoso e transnazionale degli oligarchi. I personaggi bakeriani non sono soltanto testimoni delle contraddizioni del sogno americano. Sono essi stessi sognatori in bilico tra mondi opposti che sono sostenuti proprio dalla loro reciproca opposizione. Spesso sull’orlo di un brusco risveglio. Come si fa a non volergli bene?

Tradizione. La critica dell’American Dream, la figura del dropout, l’interesse etnografico per luoghi marginali e abbrutiti dalla miseria non sono certo novità nel cinema americano. Diventano anzi temi prominenti negli anni ’70, dove la corrente New Hollywood, in opposizione agli ambienti patinati e altoborghesi descritti dalla Classic Hollywood, inaugura con registi come Scorsese, Friedkin e Cassavetes una stagione cruda e realista. Il cinema di Baker si rifà anche tecnicamente a quella stagione, rivisitandola secondo i crismi della commedia o comunque della dramedy. Un cinema di viraggi forti, montaggi netti, ma anche di fluidi piani sequenza e ondeggianti camere a mano, con un profumo artigianale.

Innovazione. Questa perizia artigiana, che più che un’innovazione è un ritorno all’origine, rappresenta un elemento distintivo del cinema di Baker, che non è solo padre ma anche padrone delle immagini, capace di ricondurre a uno stile personale e inconfondibile sequenze rese anarchiche da una buona dose di improvvisazione (in Anora, poco). Ancora più originale e tipizzante la tendenza a dar voce a una categoria marginale e sfruttata come quella delle sex workers, discorso che in Baker si ammanta con i vestiti dello spettro marxista e infesta con pestifera ma spietata veemenza la retorica del sogno americano, rivelando l’inscindibile e crudele commistione di rapporti economici, rapporti sessuali e rapporti sociali sotto un velo di ironia feroce.

Oscar e Palma. Per comprendere i premi bisogna innanzitutto sollevare quel velo – fermo restando che l’Oscar come e più di ogni premio non è garanzia assoluta di qualità. Con questa scelta, Hollywood conferma il trend arty e inclusivo degli ultimi anni: dopo Oppenheimer, Everything Everywhere All at Once, Nomadland, Parasite, La forma dell’acqua, vince un altro film “autoriale” (qualunque cosa significhi), che si distingue per una certa radicalità dello stile (oppenheimer, i nominati brutalist e the substance) e un senso di inclusività diretto talvolta verso altre tradizioni etno-culturali (eeao, parasite), talvolta verso una generica categoria di “emarginati” (nomadland, forma dell’acqua, anora). In sintesi, Hollywood tende la mano a un altro tipo di cinema, quel cinema che in Hollywood abitualmente non si identifica. Non una casualità: chi apprezza l’arte poi riesce anche a riprodurla (e a guadagnarci).

Intanto Sean Baker, con il suo film più dolce, anche in termini di stile (il più “digeribile”), corona con l’Oscar una filmografia audace, coerente e provvista di un’identità specifica. Esattamente quello che non è riuscito a fare Brady Corbet con The Brutalist (che ho recensito qui). Non so se è abbastanza per spiegare il successo di Anora, ma da qui a inspiegabile ce ne passa.

Lo specchio, la stanza, l’uovo

Un commento in memoria di David Lynch.

Lo specchio – Dualità

Fuoco e acqua, notte e giorno, sole e luna, uomo e donna, freddo e caldo, sopra e sotto, male e bene, bianco e nero, sì e no, destra e sinistra, sempre e mai, passato e futuro, luce e buio, veglia e sogno, vita e morte, lo specchio e il suo riflesso. Sin dalle prime ore di vita, un essere umano comincia a orientarsi in una realtà complessa, dinamica, in perpetuo movimento, e lo fa operando differenze e distinzioni che spesso si basano su coppie di opposti complementari. Per questo il cinema di Lynch colpisce così in profondità. È zarathustriano nel suo profetizzare una realtà costruita, ancora prima che animata, da polarità oppositive in uno stato di lotta perpetua.

Un cinema eracliteo, e verrebbe da dire che il fuoco è il simbolo principale nella poetica di Lynch. Invece no, è lo specchio. L’occhio dello specchio ha il potere inquietante di duplicare qualsiasi cosa incontri il suo sguardo. Le singolarità del mondo raddoppiano, si moltiplicano, si invertono di segno. Lo specchio materializza la doppiezza di ciò che appare unico, unitario, indivisibile. L’umanità di Lynch è sempre in procinto di sfaldarsi, di scindersi, lacerata da impulsi e appetiti contrapposti. Lo specchio allora è uno strumento per cogliere la verità del reale nel suo riflesso fasullo, il suo inerente, incombente dividersi in una dualità discorde, violenta. Twin Peaks: i picchi gemelli. Doppi, appunto.

La stanza – Chora

Nel Timeo, Platone per giustificare l’esistenza delle forme reali ipotizza l’esistenza di un luogo metafisico, un intervallo, un ricettacolo, grembo o matrice, dove queste forme vengono accolte e generate, dove i confini invalicabili della realtà diventano flessibili e porosi, il sogno si confonde con la veglia, la vita con la morte. È la Chora (χώρα). Il cinema di Lynch è pieno di chorai. La stanza rossa di Twin Peaks, il Club Silencio di Mulholland Drive, l’appartamento di Dorothy Valley in Velluto blu, la casa dei Madison in Strade perdute… luoghi in cui l’eccezione soverchia la regola, e gli schemi della natura si piegano alle logiche del soprannaturale.

La chora, scrive Platone, è un “terzo genere” (triton genos). Laddove la dualità è alla base del concetto stesso di differenza, perché ciò che non è identico a sé stesso è qualcos’altro, dunque non-A implica sempre B, il “terzo genere” della chora è invece il non-luogo dove la dualità si placa, dove i contrasti si riconciliano, dove i personaggi di Lynch possono immergersi per recuperare il senso completo di una totalità spezzata, fratturata, scissa. Come Cooper nella stanza rossa tra i velluti rossi, o Betty/Diane nella stanza da letto, quando usa la chiave blu per aprire la scatola blu, che funziona come un’altra stanza, un’altra chora. Stanze che sollevano momentaneamente i velluti che nascondono l’abisso per permettere all’abisso di entrare.

L’uovo – Endice

Se il cosmo lynchiano è manicheo, duale, questa dualità si condensa e manifesta in una serie virtualmente infinita di segni, a loro volta incarnati in immagini: il fuoco, la luce elettrica, i tagliaboschi, le civette, il velluto, il nano, lo specchio, la stanza e tanti altri. Seguendo la semiotica di Peirce, i segni di Lynch non sono perlopiù né icone, né simboli. Sono indici, cioè segni che presentano una connessione di carattere fattuale con l’oggetto che rappresentano (la connessione nel caso delle icone è data da una somiglianza, nel caso dei simboli da una convenzione). Questa fattualità però non ha il carattere della realtà ma piuttosto quello della surrealtà; così uno specchio non indica solo la presenza reale di un riflesso ma la presenza surreale di una scissione, la stanza non indica solo la presenza reale di uno spazio ma la presenza surreale di uno spazio interiore o metafisico, e così via.

Gli “indici” lynchiani raramente definiscono una relazione univoca con un significato. Più spesso sono significanti in cerca di significato. Benché concreti, tangibili, triviali – un’abbattiluce, una scatoletta, una civetta – rimandano alla presenza sottesa e intangibile di significati nascosti, contraddittori. Le immagini di Lynch condividono con la poesia la capacità di offrire “universali concreti” (critica letteraria di Wimsatt), cioè di incarnare l’unione ossimorica di oggetti specifici, banali e concetti astratti, intangibili, come le foglie di Ungaretti. Rispetto ad altri registi che amano surrealismo e allusività, la particolarità di Lynch è che non si limita a mostrare al pubblico un puzzle di segni, ma offre sempre al pubblico una chiave per la sua risoluzione. Malgrado il deragliamento, talvolta incomprensibile, del treno della realtà, la forza del cinema di Lynch risiede nel non cedere all’arbitrarietà dei segni, ma nell’offrire mappe incomplete, rovinate, imprecise, misteriose, eppure sempre animate da un altissimo grado di coerenza interna. Una rigorosa vaghezza.

Comprendere il cinema di Lynch non comporta semplicemente decifrare i segni, ma raccogliere gli indici sparsi sulla mappa e lanciarli come dadi per rimettere in gioco segni profondi come abissi, come chorai, che non smettono mai di accogliere e partorire nuovi significati, nuove suggestioni, in un perpetuo rispecchiarsi di allusioni e illusioni. Allora si può anche pensare che la chiave semiotica per comprendere Lynch non sia l’indice, bensì l’endice. Nella definizione Treccani, l’endice è un “uovo di marmo, o vero, che si mette nel nido delle galline perché vi ritornino a far le uova”, ovvero un segno che non indica un significato ma ne produce uno. Ecco, il cinema di Lynch non è un cinema di indici ma un cinema di endici, segni illusori, segni allusivi, segni che non indicano una corrispondenza ma ne producono una. È il pubblico che deve fare l’uovo.*

* Tutto questo tralasciando la centralità simbolica che hanno uova e uccelli nel cinema di Lynch, dalle civette che non sono quello che sembrano all’uovo che rappresenta l’Uno che genera i Molti, la mente “uovica” dell’alchimista che trasforma in oro il piombo, l’anatra che depone le uova d’oro che ricorrono in Twin Peaks, per non parlare della concezione “maieutica” della verità intesa come verità soggettiva, personale, che rimanda alla metafora incorporata della gravidanza – ma questa è un’altra storia.

Parthenope – P. Sorrentino, 2024

Un mistero o una truffa?”

Il cinema di Sorrentino da sempre oscilla tra questi due estremi. Non è forse un mistero l’eccentrico usuraio di “L’amico di famiglia”, impegnato a truffare mezza Sabaudia? Non somiglia a una truffa il mistero dorato e barocco del Vaticano raccontato in “The Young Pope”, preti che si affannano a ripetere da secoli la stessa storia di vergini che partoriscono, di morti che risorgono, mentre nascondono le proprie ipocrisie, le segrete debolezze? Non sono truffa e mistero insieme l’oro dei paramenti sacri che indossa Parthenope, lo smalto celeste che scintilla nel Golfo di Capri?

Davanti all’emulazione dichiarata della Maniera felliniana, all’ostinata ostentazione di cornici e superfici, di bellezze e stranezze mescolate in un fastoso assortimento, pubblico e critica si interrogano da sempre allo stesso modo: il cinema di Sorrentino, truffa o mistero?

In Sorrentino non si dà l’uno senza l’altra. Ma non è certo un difetto. Il manierismo, come qualsiasi altro stile, produce risultati eccezionali e altri meno. Con “Parthenope” siamo più dalla parte del meno.

Ha sempre la battuta pronta.”

Parthenope passa attraverso il film come attraverso una serie di interviste. Tutti la adorano, tutti la ammirano, tutti le chiedono pareri: il Comandante, il fratello, l’amico d’infanzia, l’attrice, il professore, il cardinale, le studentesse. Come una Jep Gambardella al femminile, Parthenope turba e conturba la scena e si prende sempre l’ultima parola. Ma Jep era e pluribus unum, un eccentrico in una Roma di eccentrici, artisti attori criminali cantanti scrittori sante e bevitrici, ciascuna ciascuno con le proprie ambizioni.

Qui i personaggi si comportano da semplici paggi che reggono specchi in cui Parthenope riflette davanti al pubblico un’eccezionalità di cui nessuno sembra mai dubitare. Il cosmo di “Parthenope” si chiude intorno a Parthenope come una casa delle bambole. Eventi e personaggi sono semplici accessori, senz’altra ambizione che quella di avvicinare Parthenope, compiacerla, baciarla. “Ha sempre la battuta pronta” ripetono tutti. E per forza, i dialoghi sono costruiti apposta. Una serie estenuante di conversazioni grottesche, battute formaggiose, pause teatrali,. La gente reale non parla così. Lo fa soltanto negli sceneggiati. O nelle parodie.

Io non mi vergogno mai.”

Croce e delizia della poetica sorrentiniana, l’audacia di osare con tutte le potenzialità del medium cinematografico. Dialoghi, scrittura dei personaggi, costumi, scenografie, movimenti di macchina. Un adorabile assortimento di freaks e bellezze, sublimato in “Parthenope” nell’immagine che riunisce Parthenope, il Prof. Marotta e l’enorme figlio dalle sembianze buddhesche (Budai, per essere precisi). L’iperbole, l’esagerazione sono parte integrante dello stile sorrentiniano. Tutto il bene e tutto il male del mondo.

Un cinema che si comporta come “Parthenope” e come Parthenope, si manifesta in maniera epifanica e poi fugge, si maschera, si schernisce. “Io mi chiamo Parthenope. Non mi vergogno mai”. Sembra una dichiarazione poetica: “Io mi chiamo Sorrentino. Non mi vergogno mai”. Un cinema sfacciato che parla del tempo perduto, parla di Napoli, parla soprattutto di sé stesso. Con molta enfasi e non abbastanza auto-ironia. Tanto che verrebbe da dire, parafrasando Dino Risi, “Paolo spostati e fammi vedere il film”.

Era già tutto previsto”

Lo splendido pezzo di Cocciante vale come una recensione. “Parthenope” è imbottito di didascalie e facili allegorismi. “Si chiama Parthenope, come la città”; bella e sfuggente, gioca con le sue mille anime, incarnate nei suoi personaggi, metafore ambulanti. “Tuo fratello è fragile”; così sappiamo già che non ce la farà a vedere la seconda parte del film. Greta Cool insulta Napoli ma pretende i suoi soldi; personificazione dei tanti core ‘ngrato, da Cardillo a Higuain. E le cartoline di Capri, dei vicoli, del Golfo.

Era già tutto pre-visto. Un cordone ombelicale unisce l’amore giovanile di Jep ne “La grande bellezza” al ritratto di questa moderna sirena, l’irresistibile inganno della gioventù e il leopardiano naufragio delle illusioni. Solo che un’illusione al servizio della realtà, è poesia. La realtà al servizio di un’illusione, è pubblicità. “Parthenope” è l’equivalente filmico di una collezione di aforismi. Scippa la saggezza di un romanzo senza ereditarne l’ampiezza, il respiro. Come un ladro che può rubare un grande dipinto, ma non l’abilità di dipingerlo.

★★☆☆☆

Le micro-recensioni di Maggio

Vincent deve morire

Il gusto delle cose  (T. Anh Hung)
È più buono tra cucina e camera da letto.
Delizioso
★★★★☆ —> rece video su Telecapra

Furiosa (G. Miller)
picchia più di Mad Max e parla meno, in un film dove comunque ci si picchia tanto e si parla un po’ troppo.
Annunciato
★★★½☆☆ —> rece completa su Ondacinema

Vincent deve morire (S. Castang)
Se ogni tanto avete voglia di ammazzare il mondo, sappiate che il mondo la pensa allo stesso modo.
Satirico
★★★☆☆