“Anora” di Sean Baker – Un successo inspiegabile?

Commentando i pronostici degli Oscar 2025, Anna Maria Pasetti del Fatto quotidiano scrive che “le chance di The Brutalist sarebbero dovute aumentare. E invece si è avvertita un’inversione di tendenza a penalizzare questo titolo. Contestualmente si sono rafforzati i favori per il pseudo-indie e sopravvalutato Anora che, oltre all’inspiegabile Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, si è portato a casa il significativo Directors Guild Award, cioè il premio attribuito a Baker proprio dai colleghi”.

Peccato che Pasetti spenda più parole a sminuire una cinematografia così originale come quella di Sean Baker che a illuminarne i punti di forza. In realtà non credo che sia così “inspiegabile” il successo di Anora, né dal punto di vista del valore del film né da quello delle logiche di produzione e promozione che spesso stanno dietro alle scelte degli Academy. Comunque, a seguire due o tre cose che so di lei – Anora – e sulla filmografia di Baker.

Dropout. I personaggi di Baker sono tutti o quasi tutti dropout, figure tipiche del cinema americano: coloro che cadono fuori (drop-out) dalle rappresentazioni convenzionali della società, che non hanno un ruolo definito e vivono per varie ragioni ai margini del contratto sociale, non solo dal punto di vista economico ma anche di status. Travis Bickle/De Niro in Taxi Driver di Scorsese appartiene a questa categoria, così come il Gazzarra di Killing of a Chinese Bookie di Cassavetes. In Baker sono quasi sempre personaggi femminili, madri single o transessuali, spesso coinvolte nel mercato del porno o della prostituzione.

Fine delle illusioni. L’ex pornodivo protagonista di Red Rocket (che avevamo elogiato in pochi) pedala sognando Hollywood mentre sullo sfondo scivolano senza far rumore i killing fields texani, dove sono stati ritrovati decine di corpi di giovani donne, omicidi mai risolti. La madre single che si prostituisce protagonista di Un sogno chiamato Florida vive a poca distanza da Disney World, Orlando. Anora è una giovane immigrata newyorkese di seconda generazione che entra in contatto con il mondo lussuoso e transnazionale degli oligarchi. I personaggi bakeriani non sono soltanto testimoni delle contraddizioni del sogno americano. Sono essi stessi sognatori in bilico tra mondi opposti che sono sostenuti proprio dalla loro reciproca opposizione. Spesso sull’orlo di un brusco risveglio. Come si fa a non volergli bene?

Tradizione. La critica dell’American Dream, la figura del dropout, l’interesse etnografico per luoghi marginali e abbrutiti dalla miseria non sono certo novità nel cinema americano. Diventano anzi temi prominenti negli anni ’70, dove la corrente New Hollywood, in opposizione agli ambienti patinati e altoborghesi descritti dalla Classic Hollywood, inaugura con registi come Scorsese, Friedkin e Cassavetes una stagione cruda e realista. Il cinema di Baker si rifà anche tecnicamente a quella stagione, rivisitandola secondo i crismi della commedia o comunque della dramedy. Un cinema di viraggi forti, montaggi netti, ma anche di fluidi piani sequenza e ondeggianti camere a mano, con un profumo artigianale.

Innovazione. Questa perizia artigiana, che più che un’innovazione è un ritorno all’origine, rappresenta un elemento distintivo del cinema di Baker, che non è solo padre ma anche padrone delle immagini, capace di ricondurre a uno stile personale e inconfondibile sequenze rese anarchiche da una buona dose di improvvisazione (in Anora, poco). Ancora più originale e tipizzante la tendenza a dar voce a una categoria marginale e sfruttata come quella delle sex workers, discorso che in Baker si ammanta con i vestiti dello spettro marxista e infesta con pestifera ma spietata veemenza la retorica del sogno americano, rivelando l’inscindibile e crudele commistione di rapporti economici, rapporti sessuali e rapporti sociali sotto un velo di ironia feroce.

Oscar e Palma. Per comprendere i premi bisogna innanzitutto sollevare quel velo – fermo restando che l’Oscar come e più di ogni premio non è garanzia assoluta di qualità. Con questa scelta, Hollywood conferma il trend arty e inclusivo degli ultimi anni: dopo Oppenheimer, Everything Everywhere All at Once, Nomadland, Parasite, La forma dell’acqua, vince un altro film “autoriale” (qualunque cosa significhi), che si distingue per una certa radicalità dello stile (oppenheimer, i nominati brutalist e the substance) e un senso di inclusività diretto talvolta verso altre tradizioni etno-culturali (eeao, parasite), talvolta verso una generica categoria di “emarginati” (nomadland, forma dell’acqua, anora). In sintesi, Hollywood tende la mano a un altro tipo di cinema, quel cinema che in Hollywood abitualmente non si identifica. Non una casualità: chi apprezza l’arte poi riesce anche a riprodurla (e a guadagnarci).

Intanto Sean Baker, con il suo film più dolce, anche in termini di stile (il più “digeribile”), corona con l’Oscar una filmografia audace, coerente e provvista di un’identità specifica. Esattamente quello che non è riuscito a fare Brady Corbet con The Brutalist (che ho recensito qui). Non so se è abbastanza per spiegare il successo di Anora, ma da qui a inspiegabile ce ne passa.

Parthenope – P. Sorrentino, 2024

Un mistero o una truffa?”

Il cinema di Sorrentino da sempre oscilla tra questi due estremi. Non è forse un mistero l’eccentrico usuraio di “L’amico di famiglia”, impegnato a truffare mezza Sabaudia? Non somiglia a una truffa il mistero dorato e barocco del Vaticano raccontato in “The Young Pope”, preti che si affannano a ripetere da secoli la stessa storia di vergini che partoriscono, di morti che risorgono, mentre nascondono le proprie ipocrisie, le segrete debolezze? Non sono truffa e mistero insieme l’oro dei paramenti sacri che indossa Parthenope, lo smalto celeste che scintilla nel Golfo di Capri?

Davanti all’emulazione dichiarata della Maniera felliniana, all’ostinata ostentazione di cornici e superfici, di bellezze e stranezze mescolate in un fastoso assortimento, pubblico e critica si interrogano da sempre allo stesso modo: il cinema di Sorrentino, truffa o mistero?

In Sorrentino non si dà l’uno senza l’altra. Ma non è certo un difetto. Il manierismo, come qualsiasi altro stile, produce risultati eccezionali e altri meno. Con “Parthenope” siamo più dalla parte del meno.

Ha sempre la battuta pronta.”

Parthenope passa attraverso il film come attraverso una serie di interviste. Tutti la adorano, tutti la ammirano, tutti le chiedono pareri: il Comandante, il fratello, l’amico d’infanzia, l’attrice, il professore, il cardinale, le studentesse. Come una Jep Gambardella al femminile, Parthenope turba e conturba la scena e si prende sempre l’ultima parola. Ma Jep era e pluribus unum, un eccentrico in una Roma di eccentrici, artisti attori criminali cantanti scrittori sante e bevitrici, ciascuna ciascuno con le proprie ambizioni.

Qui i personaggi si comportano da semplici paggi che reggono specchi in cui Parthenope riflette davanti al pubblico un’eccezionalità di cui nessuno sembra mai dubitare. Il cosmo di “Parthenope” si chiude intorno a Parthenope come una casa delle bambole. Eventi e personaggi sono semplici accessori, senz’altra ambizione che quella di avvicinare Parthenope, compiacerla, baciarla. “Ha sempre la battuta pronta” ripetono tutti. E per forza, i dialoghi sono costruiti apposta. Una serie estenuante di conversazioni grottesche, battute formaggiose, pause teatrali,. La gente reale non parla così. Lo fa soltanto negli sceneggiati. O nelle parodie.

Io non mi vergogno mai.”

Croce e delizia della poetica sorrentiniana, l’audacia di osare con tutte le potenzialità del medium cinematografico. Dialoghi, scrittura dei personaggi, costumi, scenografie, movimenti di macchina. Un adorabile assortimento di freaks e bellezze, sublimato in “Parthenope” nell’immagine che riunisce Parthenope, il Prof. Marotta e l’enorme figlio dalle sembianze buddhesche (Budai, per essere precisi). L’iperbole, l’esagerazione sono parte integrante dello stile sorrentiniano. Tutto il bene e tutto il male del mondo.

Un cinema che si comporta come “Parthenope” e come Parthenope, si manifesta in maniera epifanica e poi fugge, si maschera, si schernisce. “Io mi chiamo Parthenope. Non mi vergogno mai”. Sembra una dichiarazione poetica: “Io mi chiamo Sorrentino. Non mi vergogno mai”. Un cinema sfacciato che parla del tempo perduto, parla di Napoli, parla soprattutto di sé stesso. Con molta enfasi e non abbastanza auto-ironia. Tanto che verrebbe da dire, parafrasando Dino Risi, “Paolo spostati e fammi vedere il film”.

Era già tutto previsto”

Lo splendido pezzo di Cocciante vale come una recensione. “Parthenope” è imbottito di didascalie e facili allegorismi. “Si chiama Parthenope, come la città”; bella e sfuggente, gioca con le sue mille anime, incarnate nei suoi personaggi, metafore ambulanti. “Tuo fratello è fragile”; così sappiamo già che non ce la farà a vedere la seconda parte del film. Greta Cool insulta Napoli ma pretende i suoi soldi; personificazione dei tanti core ‘ngrato, da Cardillo a Higuain. E le cartoline di Capri, dei vicoli, del Golfo.

Era già tutto pre-visto. Un cordone ombelicale unisce l’amore giovanile di Jep ne “La grande bellezza” al ritratto di questa moderna sirena, l’irresistibile inganno della gioventù e il leopardiano naufragio delle illusioni. Solo che un’illusione al servizio della realtà, è poesia. La realtà al servizio di un’illusione, è pubblicità. “Parthenope” è l’equivalente filmico di una collezione di aforismi. Scippa la saggezza di un romanzo senza ereditarne l’ampiezza, il respiro. Come un ladro che può rubare un grande dipinto, ma non l’abilità di dipingerlo.

★★☆☆☆

Fantasia – AAVV, 1940

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Pietra miliare del cinema d’animazione.

Nato come ambizioso tentativo di prolungare le avanguardie in una inedita fusione di musica e immagini, “Fantasia” si propone oggi come una summa animata della storia e dei valori dell’occidente, dall’Olimpo al paradiso, dalla preistoria al XX secolo, inclusi i lati oscuri che non intaccano l’impatto duraturo, il piglio pionieristico e il fascino senza tempo di un capolavoro assoluto del cinema d’animazione.

★★★★★

La recensione completa su Ondacinema.

The Assassin e lo stile qinglu 青綠

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I cavalieri, le montagne, il verde, il blu. 

Sopra, un’immagine tratta dallo wuxia “The Assassin” (Hou Hsiao-hsien, 2015); sotto, una copia Ming del dipinto di Qiu Ying che ritrae il viaggio dell’imperatore nella provincia dello Sichuan.

Non stupisce che il regista si sia ispirato alla tradizione pittorica cinese per la realizzazione del film, la cui estetica mesmerizzante sfrutta vividi contrasti cromatici e luminosi nel tentativo di esprimere i conflitti quiescenti in un contesto di calma apparente.

Nello stile qinglu 青綠 (“blu-verde”) si trova espresso, come in gran parte della pittura shanshui 山水 (“paesaggio”), il contrasto tra cicli naturali e disegni umani. I primi, indifferenti ai secondi, li sussumono in un più ampio contesto, nel quale diluiscono,  rivelandosi contingenti e arbitrari rispetto alla maestosità del cosmo.

A Yinniang, assassina incaricata di uccidere il cugino, non resta che scegliere tra giustizia sociale e armonia interiore, incarnando una volta di più il conflitto amletico tra ruolo e indole, responsabilità e desiderio.

★★★★☆

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L’imperatore Minghuang viaggia tra le gole dello Sichuan. Il dipinto è parte di un rotolo molto più grande, inchiostro su seta, probabile 17° secolo.

L’uomo di Vimini – R. Hardy, 1973

Restando nei confini dell’horror, propongo un breve commento di un classico, The Wicker Man del 1973, ormai dimenticato eccezion fatta per l’orrendo remake del 2006 con protagonista Nicholas Cage (e dopotutto, come è mai possibile fare un buon film se si comincia scritturando Nicholas Cage?)

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Lt. Howie perplesso durante le sue indagini.

Il sergente di polizia Neil Howie (Edward Woodward) si reca nella remota isola Summerisle (Scozia) in seguito alla ricezione d’una lettera anonima che denuncia la scomparsa di una bambina. Howie, devoto cristiano episcopale, si trova di fronte a eventi inconsueti e disturbanti: reticenze, menzogne, riti pagani e bizzarri costumi, come quello di consumare rapporti sessuali all’aperto.

Il ligio poliziotto chiede dunque spiegazioni al capo della ristretta comunità, Lord Summerisle (Cristopher Lee), ottenendo pochi ed ambigui suggerimenti. Decide dunque di continuare le indagini in segreto, sfidando apertamente l’atmosfera ostile che sembra aleggiare nell’isola.

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Strani tentativi di seduzione rendono Lt. Howie più perplesso di quanto già non fosse.

Il contrasto fra puritanesimo e paganesimo, repressione e sensualità, coercizione e anarchia è la colonna vibrante che sostiene l’architettura narrativa dell’intera pellicola. L’enigmatica alternanza dei ruoli, che vede il protagonista di volta in volta preda e cacciatore, sviluppa gradualmente un senso ambiguo di repulsione e attrazione verso ciascuna delle parti in lotta.

Mai come in questo film, l’orrore ha un volto umano, reale, e persino seducente. In The Wicker Man il male non ha origine infatti nel soprannaturale; si identifica invece con le pulsioni fondamentali della natura, violenza e sessualità, nel momento in cui esse, sospinte dall’ebbrezza dionisiaca, travalicano gli argini della ratio apollinea e cancellano con furia menadica i confini inviolabili del sacro.

Questo conflittuale dialogo fra inconciliabili opposti, Cristopher Lee, l’erotismo dilagante e lo splendido finale lo rendono un classico imperdibile per i sinceri amanti del genere horror.

★★★★☆

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Il mitico, irreprensibile Cristopher Lee, in uno dei ruoli più intriganti della sua carriera (come lui stesso ebbe a dire).

La donna di sabbia – H. Teshigahara, 1964

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…una cattività morbosa, impressa nel bianco e nero angoscioso di una fotografia materica (Hiroshi Segawa), che restituisce in maniera cruda e tangibile la grana fine e fluida della sabbia, la consistenza dei corpi…

Un entomologo dilettante si perde tra le dune di un remoto villaggio. Viene ospitato da una vedova che abita sul fondo di una cava di sabbia. E che non lo lascerà più andar via.

Hiroshi Teshigahara, firma illustre della nuberu bagu (ヌーベルバーグ), dirige un incubo visionario permeato da un torbido erotismo.

★★★★★

Recensione critica completa su Ondacinema.

 

Hard Eight – P.T.Anderson, 1996

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In questo ruolo P.B. Hall ricorda, e non poco, E.G. Robinson (più sotto).

Il misterioso Sidney (Philip Baker Hall), vecchio squalo del tavolo da gioco, insegna all’ingenuo John (John C. Reilly) come guadagnarsi da vivere bazzicando nei casinò. Da mentore a padre, il passo è breve.

Commento

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Robinson in un altro celebre film sul gioco d’azzardo, Cincinnati Kid.

Hard Eight sfrutta le atmosfere e i topoi narrativi tipici del genere noir (un protagonista carismatico, un passato oscuro, una donna bella e dannata, debiti di gioco, omicidi), affidando la chiave di volta a un colpo di scena che spariglia le carte verso la fine. Ai due ottimi interpreti sopracitati, si aggiungono le altrettanto buone interpretazioni della bella (Gwyneth Paltrow) e del bruto (Samuel L. Jackson) di turno. Menzione particolare per Baker Hall, che evocando lo spettro del grande Edward G. Robinson si esibisce forse nella prova migliore dell’intera carriera. La regia, misurata e distinta come il protagonista, si macchia di eccessiva deferenza.

 

★★☆☆☆