Mank – D. Fincher, 2020

Un bianco e nero disinfettato, senz’ombre.

Bisogna parlarne?

Vabbé, parliamone. Basata su una sceneggiatura di Fincher senior che ricostruisce la genesi di “Citizen Kane”, l’ultima fatica di Fincher junior recupera la visualità e le atmosfere della Golden Hollywood in chiave citazionista, allestendo un finto biopic che in realtà è una falsa ricostruzione storica che in realtà usa i toni di una compiaciuta elegia che in realtà si pone come un discorso sulla potenza affabulatoria e mistificatrice del cinema (e dei mass media).

Pro. Allo straniamento immersivo della prima ora, condotta a un ritmo serrato, risponde una seconda parte più sinuosa e coinvolgente con alcuni memorabili climax – su tutti il suicidio e il monologo etilico. Come spesso accade in Fincher, la densa stratificazione audiovisiva erige un film-ponte, che nell’indivisibile malta di tecniche e immagini differisce a una meta che è innanzitutto meta-testo, percorrendo il film nella sua interezza proprio come l’arco invisibile sostiene il ponte di Marco Polo e Kublai Khan.

Contro. Anche un cinefilo perde facilmente l’equilibrio nella vertiginosa ridda di volti, nomi, eventi, pettegolezzi. “Mank” possiede una dimensione intenzionalmente menzognera, manierista nel recupero dei piani obliqui di Welles, nell’evocazione della cinematografia chiaroscurale di Toland, nei dettagli cringe delle finte bruciature di pellicola sopra un bianco e nero deterso di fascino, ripulito dal medium digitale.

Una sceneggiatura quasi-wellesiana, démodé, assemblata sull’archetipo dell’uomo carismatico. Mank vince la battaglia d’arte con W.R. Hearst, ma per me Charles Dance ruba la scena a Gary Oldman.

In pillole. “Mank” divide, ma non nell’analisi. L’analisi mette tutti d’accordo; il giudizio, meno. Si tratta paradossalmente di un testo trasparente, perché persino le sue ambiguità sono ostentate, trasparenti. A differire e dividere sono gli stessi presupposti con cui si guarda il cinema o si fa critica: gli appassionati di enigmistica apprezzano il rubik cinefilo di Fincher, e a buon diritto; chi vive il cinema in maniera più viscerale abbandona la visione, altrettanto a buon diritto, con un po’ di mal di stomaco.

★★★☆☆