Parthenope – P. Sorrentino, 2024

Un mistero o una truffa?”

Il cinema di Sorrentino da sempre oscilla tra questi due estremi. Non è forse un mistero l’eccentrico usuraio di “L’amico di famiglia”, impegnato a truffare mezza Sabaudia? Non somiglia a una truffa il mistero dorato e barocco del Vaticano raccontato in “The Young Pope”, preti che si affannano a ripetere da secoli la stessa storia di vergini che partoriscono, di morti che risorgono, mentre nascondono le proprie ipocrisie, le segrete debolezze? Non sono truffa e mistero insieme l’oro dei paramenti sacri che indossa Parthenope, lo smalto celeste che scintilla nel Golfo di Capri?

Davanti all’emulazione dichiarata della Maniera felliniana, all’ostinata ostentazione di cornici e superfici, di bellezze e stranezze mescolate in un fastoso assortimento, pubblico e critica si interrogano da sempre allo stesso modo: il cinema di Sorrentino, truffa o mistero?

In Sorrentino non si dà l’uno senza l’altra. Ma non è certo un difetto. Il manierismo, come qualsiasi altro stile, produce risultati eccezionali e altri meno. Con “Parthenope” siamo più dalla parte del meno.

Ha sempre la battuta pronta.”

Parthenope passa attraverso il film come attraverso una serie di interviste. Tutti la adorano, tutti la ammirano, tutti le chiedono pareri: il Comandante, il fratello, l’amico d’infanzia, l’attrice, il professore, il cardinale, le studentesse. Come una Jep Gambardella al femminile, Parthenope turba e conturba la scena e si prende sempre l’ultima parola. Ma Jep era e pluribus unum, un eccentrico in una Roma di eccentrici, artisti attori criminali cantanti scrittori sante e bevitrici, ciascuna ciascuno con le proprie ambizioni.

Qui i personaggi si comportano da semplici paggi che reggono specchi in cui Parthenope riflette davanti al pubblico un’eccezionalità di cui nessuno sembra mai dubitare. Il cosmo di “Parthenope” si chiude intorno a Parthenope come una casa delle bambole. Eventi e personaggi sono semplici accessori, senz’altra ambizione che quella di avvicinare Parthenope, compiacerla, baciarla. “Ha sempre la battuta pronta” ripetono tutti. E per forza, i dialoghi sono costruiti apposta. Una serie estenuante di conversazioni grottesche, battute formaggiose, pause teatrali,. La gente reale non parla così. Lo fa soltanto negli sceneggiati. O nelle parodie.

Io non mi vergogno mai.”

Croce e delizia della poetica sorrentiniana, l’audacia di osare con tutte le potenzialità del medium cinematografico. Dialoghi, scrittura dei personaggi, costumi, scenografie, movimenti di macchina. Un adorabile assortimento di freaks e bellezze, sublimato in “Parthenope” nell’immagine che riunisce Parthenope, il Prof. Marotta e l’enorme figlio dalle sembianze buddhesche (Budai, per essere precisi). L’iperbole, l’esagerazione sono parte integrante dello stile sorrentiniano. Tutto il bene e tutto il male del mondo.

Un cinema che si comporta come “Parthenope” e come Parthenope, si manifesta in maniera epifanica e poi fugge, si maschera, si schernisce. “Io mi chiamo Parthenope. Non mi vergogno mai”. Sembra una dichiarazione poetica: “Io mi chiamo Sorrentino. Non mi vergogno mai”. Un cinema sfacciato che parla del tempo perduto, parla di Napoli, parla soprattutto di sé stesso. Con molta enfasi e non abbastanza auto-ironia. Tanto che verrebbe da dire, parafrasando Dino Risi, “Paolo spostati e fammi vedere il film”.

Era già tutto previsto”

Lo splendido pezzo di Cocciante vale come una recensione. “Parthenope” è imbottito di didascalie e facili allegorismi. “Si chiama Parthenope, come la città”; bella e sfuggente, gioca con le sue mille anime, incarnate nei suoi personaggi, metafore ambulanti. “Tuo fratello è fragile”; così sappiamo già che non ce la farà a vedere la seconda parte del film. Greta Cool insulta Napoli ma pretende i suoi soldi; personificazione dei tanti core ‘ngrato, da Cardillo a Higuain. E le cartoline di Capri, dei vicoli, del Golfo.

Era già tutto pre-visto. Un cordone ombelicale unisce l’amore giovanile di Jep ne “La grande bellezza” al ritratto di questa moderna sirena, l’irresistibile inganno della gioventù e il leopardiano naufragio delle illusioni. Solo che un’illusione al servizio della realtà, è poesia. La realtà al servizio di un’illusione, è pubblicità. “Parthenope” è l’equivalente filmico di una collezione di aforismi. Scippa la saggezza di un romanzo senza ereditarne l’ampiezza, il respiro. Come un ladro che può rubare un grande dipinto, ma non l’abilità di dipingerlo.

★★☆☆☆

Festival della Letteratura di Viaggio con Marco Aime

In estate tradizionalmente allento le visioni e intensifico le letture. Rilancio qui un evento a cui ho partecipato di recente per presentare il mio Filosofia del viaggio e parlare di turismo, viaggi, antropologia e esplorazioni, nella splendida cornice di Villa Celimontana a Roma, presso la Società Geografica Italiana.

Un dialogo che ho avuto il piacere di intrattenere con Marco Aime, antropologo di fama, che ha di recente pubblicato alcune memorie dei suoi viaggi e delle sue ricerche in giro per il mondo – Di pietre, di sabbia, di erba, di carta per Bollati Boringhieri

Le micro-recensioni di Maggio

Vincent deve morire

Il gusto delle cose  (T. Anh Hung)
È più buono tra cucina e camera da letto.
Delizioso
★★★★☆ —> rece video su Telecapra

Furiosa (G. Miller)
picchia più di Mad Max e parla meno, in un film dove comunque ci si picchia tanto e si parla un po’ troppo.
Annunciato
★★★½☆☆ —> rece completa su Ondacinema

Vincent deve morire (S. Castang)
Se ogni tanto avete voglia di ammazzare il mondo, sappiate che il mondo la pensa allo stesso modo.
Satirico
★★★☆☆

due nuovi libri

la primavera porta i suoi frutti, entrambi dall’albero di Mimesis Edizioni.

ambito cinema, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, una curatela studiata a 4 mani con Antonio Pettierre e i contributi di Matteo Bittanti, Matteo Boscarol, Diego Cavallotti, Giuseppe Gangi, Jonatan Peyronel Bonazzi, Mariangela Sansone e Andrea Tortoreto.

una mappa indispensabile per orientarsi nel territorio desolato della saga ideata da George Miller, mentre proprio in questi giorni esce al cinema Furiosa (ne parleremo con Antonio su Ondacinema).

Poi un progetto coltivato da tempo, Filosofia del viaggio. Modi, tempi, spazi, sensi del viaggiare, volume in cui traccio itinerari di senso tra la filosofia e la pratica del viaggio, in bilico tra eroi senza tempo come Ulisse, Wukong e Dante, ed esperienze contemporanee come l’urbex, il turismo di massa e quello virtuale.

stay tuned

Il gusto delle cose – (T. Anh Hung, 2024)

La passione di Dodin Bouffant (Benoit Magimel) non è un segreto. Viene rivelata fin dalla maestosa, prolungata sequenza di apertura, quaranta minuti di danza tra piastre e pentole fumanti in cui la cuciniera Eugénie (Juliette Binoche), alzata al crepuscolo mattutino, eviscera il pesce, inforna le meringhe, filtra le salse, rosola il bue, attende alle preparazioni del carré d’agnello, del vol-au-vent, del rombo affogato, dell’omelette alla norvegese in una coreografia di carni che sfrigolano, brodi che sobbollono, stoviglie che cozzano, tutto per il pranzo pantagruelico del gourmand Bouffant, il “Napoleone della gastronomia”, e della sua corte epicurea di affiliati, amici, avventori.

La passione di Dodin Bouffant oscilla tra la cucina e la camera da letto della cuciniera Eugénie, che gli fa trovare la porta a volte chiusa a volte aperta. Una storia d’amore matura per i tempi (siamo a inizio Novecento), matura nell’età degli amanti, e che pure gioca a fingersi acerba. È la stessa Eugénie a rifiutare di sposarlo, “per essere sicura di poter tenere la porta chiusa quando ne ho voglia”. I dialoghi sono pochi e comunque meno eloquenti degli sguardi, e gli sguardi meno eloquenti dei gesti nel cinema aptico di Ahn Hung, che svuota la storia di azione e parole per riempirla di mani, di gesti, di aromi materializzati dal montaggio che stacca dai fumi della cucina a Dodin che li avverte sin dalla vasca da bagno, del concerto appetitoso degli utensili che si rispondono in un film quasi interamente privo di colonna sonora.

La passione di Dodin Bouffant segue il moto intossicante della macchina da presa che sembra voler inseguire gli sguardi languorosi degli amanti, sembra voler scoperchiare le pentole e sfiorare le pietanze. La ritroviamo nel montaggio eisensteiniano che accosta il corpo sinuoso di una pera glassata al nudo di Juliette Binoche, accostando gastronomia ed erotismo al ritmo di una lenta, meticolosa scoperta che si rinnova di pasto in pasto, di morso in morso. La battuta più significativa dell’intero film, pronunciata da Dodin, allude proprio a questo: “Amo tutte le stagioni. Le prime gocce di pioggia, i primi fiocchi di neve, i primi fuochi nel camino, i primi germogli. Tutte queste prime cose che ritornano mi riempiono di felicità”.

“La passione di Dodin Bouffant” si innesta con questo senso pungente di caducità nel filone cinematografico del “gastromanticismo” che annovera titoli importanti come “La grande abbuffata”, “Il pranzo di Babette”, “Il cuoco, il ladro, la moglie e l’amante”, “Chocolat”, “Tampopo” e “Il filo nascosto”. Proprio quest’ultimo offre un intrigante parallelo: là la relazione di coppia si dava come avvelenamento volontario, duello a fasi alterne che riposa sulla costante alternanza di dominante e dominato; qui si dà come rapporto paritario di cura e scambio quotidiano, che dilata il gesto e il momento in apprezzamento intenso di una temporalità dove gli odori, i gusti, diventano sculture sensoriali incarnate nella fisicità delicata e statuaria dei due interpreti – che amanti, oltre che nello schermo, lo furono nella vita – la grazia infinita di Juliette Binoche, il fascino lunare di Magimel.

Questa calma sensualità persistente, come l’odore del brodo che riempie la stanza, ricorda il cinema di Wong Kar-wai, di Nagisa Oshima, e già ne avevamo avuto un assaggio nel magnifico esordio, “Il profumo della papaya verde”. L’accostamento tra cinema e gastronomia viene naturale – diversi “ingredienti”, una complessa “ricetta”, il “gusto” di un autore, il “retrogusto” che lascia un film – ma qui è quasi una dichiarazione d’intenti: la sottotrama principale racconta del menù che Dodin vuole offrire al principe di Estonia, con piatto principale il pot-au-feu, che doveva anche essere il titolo del film. Piatto umile, generoso, di carni e verdure bollite, che ha sfamato le generazioni di Francia.

Umiltà e generosità sono anche gli ingredienti principali del cinema di Anh Hung, che cuoce a fuoco lento e affida il finale a una panoramica circolare su una cucina vuota, con i fantasmi della memoria che tornano a imprimersi sulla luce calda, deliquescente del pomeriggio, un po’ come le immagini sulla pellicola in un celebre carrello di Mizoguchi (Ugetsu), prima che esploda la sola e unica traccia musicale del film, la Méditation di Massenet. “Ti ricordi questo sapore?” aveva chiesto Dodin alla giovane allieva Pauline certificando il rapporto che esiste tra gusto e memoria (Proust docet). Proprio nella memoria, attraverso la liturgia vaporosa dei gesti ripetuti e ritualizzati, la cerimonia del cibo trova la sua celebrazione, riconnettendo passato e presente in un istante senza tempo. Gustare equivale a fotografare con le labbra, con i sensi, rubando spiccioli di vita dalle mani avare del tempo.

Guardatelo a stomaco pieno.

★★★★☆

Le micro-recensioni di Aprile

Challengers (L. Guadagnino)
Bravissima tennista interrompe carriera ma prosegue con il doppio fallo.
Slam
★★★★☆

May December (T. Haynes)
Insegnante stupra alunno. Lui la sposa. Attrice la imita. Lui sta al gioco.
Spiegelspiel
★★★☆☆

Priscilla (S. Coppola)
Elvis fa cose. La moglie no.
Queen
★★★½☆☆

“Challengers” di L. Guadagnino

In breve: un film-cipolla, poco compreso in cui Guadagnino, autore poco compreso, si diverte a mettere strati su strati. Strati di tempo, di corpi, di desiderio, il tutto sotto a strati di immagini, immagini di gioventù, di bellezza, di divi e dive, di tennis. Fermarsi al primo strato si può, ma non è consigliato. Guadagnino è uno di quei registi che non si possono guardare con cinismo. Altrimenti si può ridurre anche il tennis al semplice gesto di mandare la palla di là dalla rete. E in fondo, è esattamente quello che è. No?

Triangolo

Sulle tribune Art e Patrick guardano Tashi, alla festa attirano il suo sguardo, nella loro camera d’albergo Tashi li attira uno verso l’altro e rimane a guardarli. “Challengers” è tutto racchiuso in questo triangolo mimetico di giovani che imparano a guardarsi, a desiderarsi, in questo movimento centripeto, spiraliforme, traiettoria che ruota intorno a sé stessa e rimbalza sulla terra rossa del desiderio prima di rimbalzare e rilanciarsi in un’altra spirale, la spirale esotica del tempo, che riavvolge gli anni e gli scontri in un gomitolo bergsoniano (e dunque proustiano) in cui passato e presente non si allontanano come il treno dalla stazione di partenza, ma si sovrappongono come legna alle braci, le braci di un desiderio sempre vivo, bruciante, lesto a riaccendersi.

Linea

Guadagnino accentua questo aspetto ever-pulsante, anacronistico del desiderio tramite la scomposizione della linea narrativa in un’ellissi che avvolge e comprime il passato, in una molla pronta a esplodere nello scontro finale, risolutivo, centro eccentrico della vicenda verso il quale tende tutto il film. Lo accentua anche tramite le violente coupure, elisioni di montaggio che disorientano, che tagliano la testa all’idra del desiderio solo per il gusto di vederlo raddoppiare. Idra, Ercole: la linea è anche quella greca, omerica, del muscolo dell’atleta, del gesto ripetuto, cesellato, della gioventù eroica, della grazia matematica di Policleto, delle geometrie eccentriche del tennis piegate alla forza del desiderio, della lotta tra apollineo e dionisiaco.

A e B

Art è l’apollineo. Biondo, taciturno, riflessivo, adulto anche da adolescente, l’uomo affidabile che si affida alle strutture: l’accademia, il circuito professionistico, la fondazione benefica, la famiglia. Patrick è il dionisiaco. Moro, spaccone, con quel ghigno da schiaffi, adolescente anche da adulto, dorme in macchina, spende tutto, evita ed erode le strutture, seduce e abbandona. L’uno più geometria, l’altro più genio. Eppure, scriveva Foster Wallace che prima di diventare un eccellente scrittore fu un ottimo tennista, ai margini del professionismo, il tennis è genio e geometria, regola ed eccezione tutto insieme. Apollineo e dionisiaco, in un’eterna ghirlanda brillante. Perché l’umano desiderio, come il tennis, ha bisogno di entrambi, perché è fatto di entrambi.

Rete

Questa sfida (challenge) tra amanti-rivali, doppi e diversi, tra Dioniso e Apollo, richiama un’infinita rete di riferimenti. Per dirla alla Julio Iglesias, c’è chi è pirata e chi è signore: Rhett e Ashley in “Via col vento”, Rick e Laszlo in “Casablanca”, Han Solo e Luke Skywalker in Star Wars, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman in “The Master”, più di tutti Marlon Brando e Jean-Pierre Leaud in “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, riferimento importante per Guadagnino. Là come qui era il corpo desiderato e desiderante di Maria Schneider il motore immobile del récit, qui è il corpo divino, divizzato di Zendaya a cominciare il gioco, già in quel primo appuntamento che in realtà non è mai finito, non finirà mai.

Game

Giocare, nella filosofia gadameriana (e non solo), implica che i giocatori perdono temporaneamente la propria soggettività per permettere al gioco di emergere in tutta la sua bellezza. Ancora Foster Wallace scrive che nel tennis l’avversario non è il nemico, “è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione”. Anche Tashi/Zendaya lo spiega, “il tennis è un gioco di relazione”, rete che trascende i limiti angusti di ambizioni e obiettivi dei singoli punti per creare qualcosa che vada oltre il desiderio stesso, quel campo estatico, inerentemente plurale, senza persona senza scopo, in cui il desiderio trova simultaneamente il suo compimento e il suo superamento. In questa relazione, in questo gioco, i tre personaggi finiscono per trascendere i limiti angusti di ciò che in via ordinaria si dà come relazione, come gioco. Lo stesso gioco che Guadagnino fa con lo spettatore, portandolo da un lato all’altro del campo filmico, dall’abbandono a soggettive languide che ispirano un’identificazione patemica, fino a oggettive irreali che esplorano il gioco da sotto il campo da tennis, dall’interno di una pallina, indizi di un sapere metadiscorsivo che richiede di identificarsi appunto con la “meta-realtà del gioco che avviene fuori dalla realtà ordinaria” (Huizinga), inseguendo un moto estatico, fuori da sé stessi, dentro il cerchio magico di quel grande gioco che è il cinema. Il cinema di Guadagnino.

Game, set, match.

★★★★☆