Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).
The Neon Demon racconta l’ossessione per la bellezza, unica valuta che continua a crescere indefinitamente mentre la vita si consuma. Ma a feticizzarsi non sono soltanto le immagini della bellezza bensì le immagini in generale, seguendo il balzo all’indietro che chiude La montagna sacra (Alejandro Jodorowsky, 1973) e apre The Neon Demon.
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Ruby si volge all’unico amore che non prevede possibilità di rifiuto: quello necrofilo. Il montaggio di Matt Newman ci infila sotto gli occhi inquadrature balthusiane di Jesse, rivelandoci il reale oggetto del desiderio di Ruby. Ma la necrofilia non è semplice evasione, ma strategia di concupimento: Ruby comprende che solo nel perimetro della morte potrà soddisfare le proprie voglie.
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Il simbolo del Neon Demon riassume in qualche modo la struttura narrativa, un triangolo col vertice ascendente (Jesse) circondato da tre triangoli col vertice verso (Sarah, Gigi e Ruby), quattro figure che formano a loro volta un triangolo che è il film stesso, e che ricorda la stilizzazione dei genitali femminili.
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Mentre gli uomini di The Neon Demon sono inquadrati raramente in presenza di uno specchio, anche quando la presenza di uno specchio sarebbe scontata, sembra che la donna possa verificare e giustificare la propria esistenza solo attraverso un dispositivo riflettente.
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Spot del 2017, quindi posteriore a The Neon Demon, ma la commistione di horror e fashion mostra in maniera anche più netta il feticismo latente che spinge l’individuo ad amare l’inerte, l’inorganico. Il fashion non è vivo, esso comes to life, arriva alla vita, attraverso la mediazione del vivente, dell’organico.
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Nel finale, l’omicidio è trasfigurato da una patina indaco, la villa è dominata dall’azzurro della piscina, dal blu marino, dal bianco e il celeste di arredi e tappezzeria, generando una malsana discrepanza tra la freddezza degli ambienti e i fatti sanguinari che vi si svolgono.
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Sopra, Alice nello specchio; sotto, La toilette di Cathy
In quello specchio Jesse, come le donne di Balthus, e come l’Alice di Lewis Carroll, scopre un mondo infinito e ingannevole che la sottrae alla consistenza, alla pesantezza della realtà. Per tutta la durata dell’opera, Jesse rimane sentimentalmente ed eroticamente inaccessibile allo sguardo carico di desiderio dell’Altro.
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Nel momento in cui bacia il proprio riflesso uno e trino, Jesse si aliena da sé (dalla precedente versione di sé) e si consegna al feticcio del proprio riflesso, trasformandosi nella divinità algida e disincarnata che abita lo specchio.
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L’alone sfocato e brillante dei neon impedisce di lavorare sulla profondità di campo, ma avvolge le superfici in una glassa luminosa che leviga i profili e i materiali. L’ubiqua presenza di specchi contribuisce a levare profondità, fino a raggiungere una prospettiva bidimensionale tipica dei mosaici, della pittura bizantina. Alla pittura bizantina si rifanno anche gli sfondi, pseudo-monocromi dall’alto valore simbolico. Le donne vi sfilano come icone, riprese da una carrellata plastica che ricorda un’analoga carrellata nell’officina di Drive sulle carrozzerie lucide delle auto da corsa.
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Quella che ha luogo in The Neon Demon è quasi una narrazione cromatica, che si articola per mezzo dei colori e attraverso le loro reciproche conversioni e opposizioni. Da una parte il bianco dello shooting e del casting, spazio incolore in cui il corpo di Jesse si staglia come un idolo, ammaliando prima il fotografo e poi lo stilista. Poi, a luci spente, il corpo pallido e virginale di Jesse diventa per il fotografo un materiale alchemico da trasformare in oro, elemento che più di ogni altro “ha un senso ascensionale, sacralizzazione del corpo profano, ed è il metallo legato alla trasformazione e alla duttilità, si sparge, si polverizza, si liquefà, evoca la luce che non è, gli astri che non possiamo toccare.”[1]
[1] Alessia Astorri, recensione online su Gli Spietati, 12 gennaio 2016.