
Uno dei frequenti fisheye: Abigail spinge la regina.
In questa cinica commedia in costume, ambientata presso la corte di Anna Stuart (1707-1714), Lanthimos esplora con sguardo sardonico il rapporto taciuto tra potere e lussuria, mettendo a nudo le pulsioni istintuali che dirigono e determinano sottotraccia la lotta per il potere. Vi ritornano in serie le ossessioni privilegiate del regista greco – la danza, le similitudini con il regno animale, la sessualità impersonale e straniante -, trapiantate in un clima boccaccesco che pone in aperto e vivace contrasto le intenzioni dei personaggi con le rispettive maschere sociali.
L’estetica manierista serve lo scopo tramite maestosi grandangoli, ralenti capricciosi, e soprattutto i frequenti fisheye, che manifestano la distorsione del microcosmo cortigiano verso un centro gravitazionale invisibile ma ubiquo. La tipica ironia di Lanthimos colora il racconto di simboliche insolenze: prolifici conigli nel boudoir della regina, ministri litigiosi che scommettono su oche da corsa, mentre le due favorite esprimono la propria rapacità nell’esercizio di una sfida venatoria.

Come in “Barry Lindon”, visitiamo un microcosmo di stampo epico, i cui equilibri si assegnano in base a duelli: lady Masham e lady Marlborough, Harley e Godolphin… Teatro della battaglia non è però la campagna inglese, quanto piuttosto il palazzo e le sue private stanze.
Per quanto gradevole, il gioco si sgonfia presto avvitandosi meccanicamente su un intreccio annunciato, soprattutto a causa della caratterizzazione troppo esplicita delle due favorite: una doveva apparire crudele e rivelarsi innamorata, l’altra l’opposto, ma la Stone è dal principio facilmente individuabile come manipolatrice, e ogni coinvolgimento empatico è scongiurato dalla semplicità con cui si individua il disegno soggiacente. L’impressione è che Lanthimos, così abituato ad abusare del testo narrativo per giocare con la meta-testualità, abbia peccato in questa occasione di didascalismo; troppo tell e poco show, insomma.
E per quanto riguarda la parte del tell, sono più artificiosi che divertenti i dialoghi sboccacciati, esibiti con troppa disinvoltura e troppa sciatta velleità per risultare mordenti come lo erano nel film che “La favorita” prende come modello per rappresentare il contrasto fra un Settecento aristocratico e le pulsioni animalesche che lo governano sottotraccia, ovvero il “Draughtsman’s Contract” di Greenaway (là, tardo Seicento).
“La favorita” non è il mio favorito tra i film di Lanthimos, ma è forse una normale tappa di assestamento nel percorso di un regista che sta cercando una graduale apertura della propria poetica a un pubblico più ampio.
★★★☆☆
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