Lo specchio, la stanza, l’uovo

Un commento in memoria di David Lynch.

Lo specchio – Dualità

Fuoco e acqua, notte e giorno, sole e luna, uomo e donna, freddo e caldo, sopra e sotto, male e bene, bianco e nero, sì e no, destra e sinistra, sempre e mai, passato e futuro, luce e buio, veglia e sogno, vita e morte, lo specchio e il suo riflesso. Sin dalle prime ore di vita, un essere umano comincia a orientarsi in una realtà complessa, dinamica, in perpetuo movimento, e lo fa operando differenze e distinzioni che spesso si basano su coppie di opposti complementari. Per questo il cinema di Lynch colpisce così in profondità. È zarathustriano nel suo profetizzare una realtà costruita, ancora prima che animata, da polarità oppositive in uno stato di lotta perpetua.

Un cinema eracliteo, e verrebbe da dire che il fuoco è il simbolo principale nella poetica di Lynch. Invece no, è lo specchio. L’occhio dello specchio ha il potere inquietante di duplicare qualsiasi cosa incontri il suo sguardo. Le singolarità del mondo raddoppiano, si moltiplicano, si invertono di segno. Lo specchio materializza la doppiezza di ciò che appare unico, unitario, indivisibile. L’umanità di Lynch è sempre in procinto di sfaldarsi, di scindersi, lacerata da impulsi e appetiti contrapposti. Lo specchio allora è uno strumento per cogliere la verità del reale nel suo riflesso fasullo, il suo inerente, incombente dividersi in una dualità discorde, violenta. Twin Peaks: i picchi gemelli. Doppi, appunto.

La stanza – Chora

Nel Timeo, Platone per giustificare l’esistenza delle forme reali ipotizza l’esistenza di un luogo metafisico, un intervallo, un ricettacolo, grembo o matrice, dove queste forme vengono accolte e generate, dove i confini invalicabili della realtà diventano flessibili e porosi, il sogno si confonde con la veglia, la vita con la morte. È la Chora (χώρα). Il cinema di Lynch è pieno di chorai. La stanza rossa di Twin Peaks, il Club Silencio di Mulholland Drive, l’appartamento di Dorothy Valley in Velluto blu, la casa dei Madison in Strade perdute… luoghi in cui l’eccezione soverchia la regola, e gli schemi della natura si piegano alle logiche del soprannaturale.

La chora, scrive Platone, è un “terzo genere” (triton genos). Laddove la dualità è alla base del concetto stesso di differenza, perché ciò che non è identico a sé stesso è qualcos’altro, dunque non-A implica sempre B, il “terzo genere” della chora è invece il non-luogo dove la dualità si placa, dove i contrasti si riconciliano, dove i personaggi di Lynch possono immergersi per recuperare il senso completo di una totalità spezzata, fratturata, scissa. Come Cooper nella stanza rossa tra i velluti rossi, o Betty/Diane nella stanza da letto, quando usa la chiave blu per aprire la scatola blu, che funziona come un’altra stanza, un’altra chora. Stanze che sollevano momentaneamente i velluti che nascondono l’abisso per permettere all’abisso di entrare.

L’uovo – Endice

Se il cosmo lynchiano è manicheo, duale, questa dualità si condensa e manifesta in una serie virtualmente infinita di segni, a loro volta incarnati in immagini: il fuoco, la luce elettrica, i tagliaboschi, le civette, il velluto, il nano, lo specchio, la stanza e tanti altri. Seguendo la semiotica di Peirce, i segni di Lynch non sono perlopiù né icone, né simboli. Sono indici, cioè segni che presentano una connessione di carattere fattuale con l’oggetto che rappresentano (la connessione nel caso delle icone è data da una somiglianza, nel caso dei simboli da una convenzione). Questa fattualità però non ha il carattere della realtà ma piuttosto quello della surrealtà; così uno specchio non indica solo la presenza reale di un riflesso ma la presenza surreale di una scissione, la stanza non indica solo la presenza reale di uno spazio ma la presenza surreale di uno spazio interiore o metafisico, e così via.

Gli “indici” lynchiani raramente definiscono una relazione univoca con un significato. Più spesso sono significanti in cerca di significato. Benché concreti, tangibili, triviali – un’abbattiluce, una scatoletta, una civetta – rimandano alla presenza sottesa e intangibile di significati nascosti, contraddittori. Le immagini di Lynch condividono con la poesia la capacità di offrire “universali concreti” (critica letteraria di Wimsatt), cioè di incarnare l’unione ossimorica di oggetti specifici, banali e concetti astratti, intangibili, come le foglie di Ungaretti. Rispetto ad altri registi che amano surrealismo e allusività, la particolarità di Lynch è che non si limita a mostrare al pubblico un puzzle di segni, ma offre sempre al pubblico una chiave per la sua risoluzione. Malgrado il deragliamento, talvolta incomprensibile, del treno della realtà, la forza del cinema di Lynch risiede nel non cedere all’arbitrarietà dei segni, ma nell’offrire mappe incomplete, rovinate, imprecise, misteriose, eppure sempre animate da un altissimo grado di coerenza interna. Una rigorosa vaghezza.

Comprendere il cinema di Lynch non comporta semplicemente decifrare i segni, ma raccogliere gli indici sparsi sulla mappa e lanciarli come dadi per rimettere in gioco segni profondi come abissi, come chorai, che non smettono mai di accogliere e partorire nuovi significati, nuove suggestioni, in un perpetuo rispecchiarsi di allusioni e illusioni. Allora si può anche pensare che la chiave semiotica per comprendere Lynch non sia l’indice, bensì l’endice. Nella definizione Treccani, l’endice è un “uovo di marmo, o vero, che si mette nel nido delle galline perché vi ritornino a far le uova”, ovvero un segno che non indica un significato ma ne produce uno. Ecco, il cinema di Lynch non è un cinema di indici ma un cinema di endici, segni illusori, segni allusivi, segni che non indicano una corrispondenza ma ne producono una. È il pubblico che deve fare l’uovo.*

* Tutto questo tralasciando la centralità simbolica che hanno uova e uccelli nel cinema di Lynch, dalle civette che non sono quello che sembrano all’uovo che rappresenta l’Uno che genera i Molti, la mente “uovica” dell’alchimista che trasforma in oro il piombo, l’anatra che depone le uova d’oro che ricorrono in Twin Peaks, per non parlare della concezione “maieutica” della verità intesa come verità soggettiva, personale, che rimanda alla metafora incorporata della gravidanza – ma questa è un’altra storia.

Twin Peaks 3 – il finale spiegato

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Non sono in pochi ad essere rimasti perplessi davanti all’enigmatico finale della 3° stagione di Twin Peaks. L’epopea lynchiana si chiude di schianto, con un grido e un blackout, per poi scivolare nei suadenti titoli di coda in cui Laura Palmer sussurra qualcosa all’orecchio dell’agente Cooper.

Come sono andate le cose, in realtà? Propongo qui la mia personale interpretazione.

Cominciamo col dire che Laura Palmer non è un semplice essere umano. Essa viene creata, sotto forma di globo aureo, dal Fireman (episodio 8) per contrastare le forze del male, scatenate in seguito all’esperimento nucleare eseguito nel New Mexico. La compagna del Fireman, Señorita Dido, spedisce Laura nel mondo reale.

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Señorita Dido con Laura Palmer/globo aureo.

Come sappiamo, Laura non ha molta fortuna; finisce preda di due genitori posseduti da due spiriti malvagi, Leland/BOB e Sarah/Judy.

Nella prima serie, Laura viene uccisa dal padre. In questa terza serie, l’agente Cooper viaggia indietro nel tempo fino alla notte in cui Laura venne uccisa e la salva, modificando il futuro (infatti vediamo il cadavere di Laura Palmer, avvolto nella plastica sulla riva del lago, scomparire nell’episodio 17). Tuttavia, Laura Palmer viene sbalzata (non si sa da chi; forse dal Fireman, forse da Judy) in un’altra dimensione e prende il nome di Carrie Page.

Nell’episodio 18 vediamo Cooper e Diane guidare per 430 miglia (numero suggerito dal Fireman nell’episodio 1) e attraversare un varco dimensionale in prossimità di un elettrodotto. In questa terza serie, l’elettricità funge spesso da mezzo di trasporto inter e intra-dimensionale, per ogni tipo di entità (come ho scritto in un altro post).

Dopo un rapporto sessuale con Diane in un motel, Cooper si sveglia confuso. La donna è scomparsa e gli ha lasciato un biglietto d’addio, firmato da “Linda” per “Richard”. I nomi sono il secondo dei tre indizi che il Fireman annuncia nel primo episodio, e rivelano che le precedenti identità di Cooper e Diane, dopo aver attraversato il varco dimensionale, sono definitivamente compromesse.

Anche la personalità di Cooper ne risente: a tratti premuroso e ligio come il Dale Cooper che tutti conosciamo, a tratti freddo e brutale come il suo inquietante doppelganger. Malgrado ciò, Cooper guida fino a Odessa e qui trova Carrie Page. La convince a intraprendere un lungo viaggio che li porterà fino a Twin Peaks. Cooper la conduce fino alla casa natale, che ha il numero 708.

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Phillip Jeffries nella sua accattivante nuova veste.

Nell’episodio 17 Phillip Jeffries, diventato nel frattempo una gigantesca teiera meccanica, aveva suggerito a Cooper proprio il numero 708 per rintracciare “Judy”.

Laura però non riconosce la propria casa natale. Cooper appare disorientato e inerme (un po’ come lo spettatore).

Quindi si sente la voce di Sarah, madre di Laura, che la chiama dall’interno della casa illuminata. Laura sembra infine ricordare chi è e prorompe in un grido disperato: le luci della casa si spengono e partono i titoli di coda.

Poiché Sarah è in realtà Judy; poiché Laura è l’essere destinato a contrastare le forze del male, di cui Judy è l’emblema; poiché l’energia elettrica, che in questa serie funge da mezzo di trasporto inter-dimensionale, viene a mancare d’improvviso in seguito al grido di Laura; ergo, la mia interpretazione è che Laura Palmer abbia sconfitto Judy chiudendo il varco dimensionale e confinandola quindi nella dimensione di Twin Peaks, che è una dimensione parallela rispetto a quella che conosciamo.

A supportare questa tesi c’è forse l’etimologia. Infatti Gordon Cole, nell’episodio 17, parla di Judy come di una “potente forza negativa” conosciuta nella mitologia cinese come jiaode 叫得, locuzione che significa appunto “gridare”, “urlare” o “chiamare”. È plausibile che Laura, “chiamandola”, abbia in qualche modo annichilito o depotenziato Judy.

Dunque, sostanzialmente un lieto fine.

Una soluzione fantasiosa? Possibile. Ma è meglio non dimenticare che si parla di Twin Peaks. Inoltre, sono molte le religioni che assegnano alla parola e al linguaggio un valore magico, un potenziale occulto. Dalla Cabala ai Ching, passando per il celebre “In principio erat Verbum”…

Se così è, nei titoli di coda viene forse mostrato il flashback che racconta il momento in cui Laura sussurra all’orecchio di Cooper l’ingegnosa strategia con la quale i due annienteranno Judy.

Twin Peaks: tre elementi chiave per comprendere la 3° stagione

Bello e impossibile. Così, con questa triviale citazione rubata al mondo della musica leggera, si potrebbe riassumere l’universo di Twin Peaks, affascinante e complesso come un sistema fisico a interazioni multiple.

Per una spiegazione esauriente non basterebbe un libro, ma offro qui tre elementi chiave che possono aiutare a comprendere lo sviluppo tematico e narrativo della 3° stagione.

1° Dualità

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Il mondo descritto da Lynch è duale e manicheo: esiste una netta separazione fra forze del bene e forze del male, Loggia Bianca e Loggia Nera, positività e negatività. La dualità fondamentale della realtà non impedisce tuttavia la compenetrazione dei due elementi, o la conversione del bianco in nero, o del nero in bianco.

Anzi, di fatto l’intera storia racconta la lotta di multiple forze doppie che si fronteggiano. BOB e MIKE; Cooper e il suo doppelganger; il Fireman (in Italiano, tradotto come Fuochista) e Judy; i vari tulpa, entità create ad immagine e somiglianza di persone reali allo scopo di assolvere una precisa funzione: Dougie Jones, la falsa Diane, il falso Maggiore Briggs e probabilmente anche la famosa Annie Blackburn, che ricorderete se avete visto la 2° serie.

2° Fuoco

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Il fuoco è un elemento ricorrente in Twin Peaks. Associato in prevalenza (o quasi esclusivamente, mi pare) con la Loggia Nera e le forze del male.

“Fire walk with me” è una strofa del mantra che BOB ripete ossessivamente. Ed è anche, ovviamente, il titolo del lungometraggio del 1992. I woodsmen, creature demoniache nate dal fuoco (il test nucleare in New Mexico), chiedono fuoco (per fumare). Nella mappa di Hawk sono rappresentati pericolosi incendi. Puntata 11, la Signora Ceppo avvisa il vice-sceriffo: “There’s fire where you are going”.

Il principio benigno che si oppone alle forze demoniache, che abita e governa la Loggia Bianca, in precedenza conosciuto come “Gigante”, è presentato nella 3° serie come Fireman, l’uomo del fuoco o fuochista, che in inglese significa anche “pompiere”, colui che spegne gli incendi…

3° Elettricità

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Twin Peaks descrive un mondo agitato dalla lotta, sovente invisibile, fra forze positive e negative. Ebbene, negatività e positività sono due caratteristiche dei campi elettrici, e l’elettricità – elemento cruciale in questa 3° stagione – rappresenta un campo idealmente neutro, che può essere percorso o sfruttato da entrambe le forze in gioco.

Luci elettriche che si spengono e si accendono sono topoi ricorrenti nella filmografia di Lynch: lampadine, semafori, lampioni. Proprio attraverso una presa elettrica Cooper riesce a tornare nel mondo reale, e sempre attraverso una presa elettrica recupera la memoria. Judy utilizza l’elettricità come mezzo di trasporto fra diverse dimensioni. Cooper e Diane varcano un cancello dimensionale in prossimità di un elettrodotto. Richard Horne muore fulminato da una trappola preparata per BOB.

La serie, non a caso, si chiude con un improvviso black out che colpisce la casa di Laura Palmer non appena la donna riconosce la sua abitazione.