Blonde – A. Dominik, 2022

Marilyn scissa, frammentata dagli / negli sguardi del pubblico, non riconosce sé stessa nel brillio inesausto delle telecamere, degli schermi e degli specchi. Narciso che non trova sé stesso, e si cerca nell’eco mediatico. Trovandosi soltanto come simulacro, o icona. Uno dei temi di Blonde.

Lo dico subito: per me è no. Un film così estremo nei contenuti e nei toni narrativi, nella durata e nelle soluzioni visuali dopotutto non poteva che essere divisivo; qualcuno grida al capolavoro, qualcun altro se la ride. Come spesso accade, sto dalla parte degli scettici.

La Marilyn di Dominik, abbandonata dal padre e angariata da una madre schizofrenica, è un pendolo che oscilla tra un amante e l’altro lasciandosi ciclicamente sedurre, abbandonare, picchiare e violentare. La disperazione lascia presto il passo a una bambinesca indifferenza, in cui il viso dolce e lacrimoso di Ana de Armas trascolora in inquadrature distorte e perturbati che ricordano (anche nei temi) il cauchemardesco Mulholland Drive di David Lynch.

Ma proprio dal confronto con il film di Lynch, evocato dai difensori di Blonde come un santo patrono, emergono tutti i limiti e i difetti dell’opera. Protagonista di Mulholland Drive era una psiche femminile dilaniata tra innamoramento e sofferenza, erotismo e vendetta, tanto netta e autonoma nelle azioni quanto ambigua e sfumata nelle intenzioni. In Blonde invece non esiste ambiguità: dalle prime all’ultima inquadratura Marilyn si trasforma in un’icona di sofferenza tormentata e assediata dal desiderio maschile.

A cominciare dall’abbandono paterno e raccontando per accumulo le angherie di Chaplin/Robinson, Di Maggio, Wilder, la “violenza” di John Kennedy (leggenda) e l’aborto “imposto” da Bob Kennedy (leggenda pure quello), l’intero racconto ruota intorno alla intrinseca dipendenza di Marilyn da una figura maschile. Una dipendenza che ha carattere tossicomanico, perché allude a persistenti incapacità di autodeterminarsi e tendenze autodistruttive.

Insomma, Blonde non lascia alcuno spazio alla multidimensionalità della Marilyn reale, sposata a 16 anni per evitare di tornare in orfanotrofio, divorziata a 21 per proseguire la carriera cinematografica contro la volontà del marito, viaggiatrice senza marito in Corea a 25 anni e produttrice cinematografica a meno di 30. Ma il problema non è il rapporto tra film e realtà, quanto l’appiattimento del personaggio su un modello stereotipico e sessista: la Marilyn di Blonde è una bionda stupida e sexy bisognosa di essere salvata. La sequenza più grave in questo senso è l’apparizione di Arthur Miller che piomba in un teatro di prova come un principe azzurro, salvando Marilyn (?) che non ne aveva alcun bisogno visto che era all’apice della carriera e aveva appena vinto una battaglia legale con la 20th Century Fox (ma anche questo in Blonde non si vede).

Gli indizi di sessismo sono tanti: nel corso del film, Marilyn non parla quasi mai con altre donne; è traumatizzata fino alla morte dall’abbandono del padre, ma in compenso le violenze e la follia della madre non sembrano averla segnata più di tanto; assediata dagli amanti e ossessionata dagli aborti, come se la sua identità dovesse definirsi attraverso il sesso e la maternità – attributi stereotipici di una brava moglie americana. Nella sua impotenza e nel suo santo dolore, più che una donna viva e reale ricorda una passiva icona di pietà, come quelle Madonne trafitte da sette spade che stanno ai tabernacoli di una pieve.

Molto poco santo è invece l’uso strumentale che viene fatto del corpo nudo della de Armas. Per carità, una splendida visione; ma ostentare senza necessità un nudo femminile mentre Marilyn telefona, riposa o respira assomiglia molto più a una perpetrazione dell’uso oggettuale del corpo della donna, che alla sua sublimazione. L’unica vera, irrisolta ambiguità del film di Dominik è proprio questa: sembra replicare e condividere gli stessi sguardi, gli stessi vizi che si sforza di denunciare.

Ma non serve un giudizio morale per stroncare il film, radicale anche su un piano estetico: sensibilità e finezza mancano pure in fase di regia, dove la strategia coloristica, la molteplicità dei formati (ben quattro!), delle lenti, delle camere, delle tecniche di rappresentazione e di post-lavorazione digitale dell’immagine formano una torre di Babele, un monumento audiovisivo in cui l’accumulo pretestuoso e disordinato di tutte le potenzialità e tutti i linguaggi di cui dispone il cinema crea soltanto una volgare confusione, che emerge chiaramente in alcune sequenze pacchiane (feti che parlano, primi piani ai pompini), originali ed effettive quanto le pubblicità progresso sui pacchetti di sigarette.

★★☆☆☆

2 Pensieri su &Idquo;Blonde – A. Dominik, 2022

  1. Io sto nel mezzo. Per me è un bel film, interessante a livello di regia e molto ben recitato, ma non è un film perfetto, né il capolavoro esaltato da molti. Soprattutto, non ho capito molto il senso dell’operazione, ma forse è un limite mio.

    "Mi piace"

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...