[9] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Il gioco cinefilo contagia in Bleeder la totalità del linguaggio filmico nelle sue componenti atomiche, a cominciare dai titoli di testa, poi la luce, l’onomastica (Leo-Lea-Lenny-Louis-Louise), la colonna sonora e ovviamente l’enfasi sul colore (a compensare il daltonismo di Winding Refn).

Come nota Leonardi nel suo pezzo per il dossier monografico di Nocturno,

“Ogni personaggio è segnato da una particolare fotografia che lo inserisce in un contesto luministico differente: per l’asociale e malinconico Lenny, commesso di videoteca, è una scala di grigi e penombre; per la donna che ama, la silenziosa Lea, il blu e spiragli di luce bianca; per l’aggressivo operaio Leo, il rosso e l’abisso cupo del nero; per sua moglie Louise, il giallo e i pastelli che colorano le sue speranze acerbe.”

[7] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Emotivamente castrato, Frank (Pusher) non è capace di relazionarsi con gli altri che attraverso una scala di violenze, fisiche o psicologiche, dirette indirette, serie o simulate. Tuttavia, non è pronto ad assumere la portata eroica che l’esercizio della violenza porta con sé nel cinema refniano (basti pensare al Ryan Gosling di Drive). Il finale aperto, sospeso, di Pusher, lascia intendere che finirà vittima di Milo, il gangster con cui ha accumulato un grosso debito.

È Frank stesso a ostruirsi l’unica possibile via di uscita, una romantica fuga in Spagna con Vic (“The hell would I do in Spain?”). Nessun miraggio esotico alla Dillinger è morto (Marco Ferreri, 1969), alla Carlito’s Way (Brian De Palma, 1993), nessuna redenzione. In chiusura il montaggio alterna la fuga in taxi di Vic e la preparazione dell’agguato ordito da Milo a una serie di primi piani statuari, incombenti, con Frank immerso in una luce inacidita.

[6] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Bleeder, il lavoro più sottovalutato e incompreso della produzione refniana.

Sfuggita quasi a tutti, la chiave di volta dell’intero film è una breve scena che inizia a 25:39, in cui Louis si reca a casa della sorella Louise con un trapano per appendere uno specchio. Comincia con un campo medio in cui vediamo Louise al centro della scena, in un angusto rettangolo tra i muri del suo appartamento, quasi fossimo dall’altra parte dello specchio.

[5] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Mentre Frank (Kim Bodnia in Pusher) non accetta la propria identità di genere, Leo (Kim Bodnia in Bleeder, secondo lungometraggio di NWR) non accetta la propria identità di padre. Feticisticamente attaccato a poche inutili carabattole come espressione di una libertà mai realmente goduta, che vendica le frustrazioni delle proprie speranze disilluse sulla moglie che sposta, rimuove i feticci: This is my life! / Aren’t I your life too? E segue il violento pestaggio che la porterà all’aborto. In queste battute si condensa il dramma, così come in quella seguente: I was never asked. Fuck, I don’t want a kid in this shitty world, quasi una contre-plongée in cui l’intera stanza, sotto l’effetto delle lenti anamorfiche, pare curvarsi, ripiegarsi su sé stessa.

[4] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sempre in Pusher, il disprezzo di Frank verso il genere femminile si può ricondurre a un’omosessualità latente e repressa, sulla falsariga di quanto Wood scrisse a proposito di Toro scatenato (Robin Wood, “Raging Bull: The Homosexual Subtext in the Film,” in Michael Kaufman, a cura di, Beyond Patriarchy. Essays by Men on Pleasure, Power and Change, Toronto-New York: Oxford University Press, 1987).

Come in Toro scatenato, l’aggressività verso il genere maschile segna la difesa contro il ritorno dell’omosessualità repressa, secondo un tipico schema freudiano – “io non lo amo, io lo odio.”

Il vero indizio in questo senso giunge in apertura, un bacio breve ma intenso tra Frank e Tonny in cui è il primo a prendere l’iniziativa, e a compiere, per la prima e unica volta nel film, un gesto d’affetto. L’indole anaffettiva e violenta di Frank deriverebbe dunque dall’impossibilità di palesare la propria identità sessuale in un patriarcato tossico.

[3] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Pusher si sviluppa con le modalità del thriller, ma il cuore del dramma è amletico, il conflitto shakesperiano tra dovere e desiderio.

Il fatto che Pusher sia un dramma identitario viene confermato dalla scena in cui Frank danza con un teschio in mano, evidente citazione amletica. Una fragilità che la fidanzata, la escort Vic, nella sua disperata innocenza, pare non solo comprendere ma anche condividere: “I could be whatever I want, I just don’t feel like it.”

Come ho scritto altrove, “la crisi identitaria di Amleto consiste nel non sapersi risolvere a interpretare il ruolo di erede al trono, il ruolo di vendicatore o nessuno dei due. Amleto non sa o non vuole sottrarsi all’onere della scelta tra due alternative egualmente invise; in ritorno, l’indecisione si ripercuote sul personaggio scatenando una crisi latente sin dall’inizio del dramma, che infatti si apre con un’urgente richiesta di identificazione (Who’s there? 1.1.1-2)” [da R. Capra, I flauti del cielo, Mimesis, p.76].

[2] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sopra, Non aprite quella porta. Sotto, Pusher. Lo squallore di una cucina sporca, il senso di minaccia, l’orrore claustrofobico e senza vie di fuga.

Già in Pusher, è palpabile l’influenza di Non aprite quella porta (T. Hooper, 1974), un horror, a detta di NWR, “terrificante anche se non accade nulla, non vedi mai nessuno venire ucciso, è il sound design […] Una maniera molto efficace di raccontare una storia.”

La scenografia veicola un sentimento di oppressione claustrofobica, anche attraverso l’utilizzo del colore e del sonoro: “le stamburate punk-rock dei Prisoner inchiodano gli attanti alle penombre acide di scantinati, pub, palestre, cessi, club underground, tagliate da viraggi verde fluo, rosso shocking, blu neon, in aloni foschi e granulosi reminiscenti di una cinematografia anni ’70.”

[1] Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).

Sopra, Mean Streets, M. Scorsese, 1973. Sotto Pusher, N. Winding Refn, 1996.

In Pusher, esordio di Nicolas Winding Refn, ritroviamo “il senso di opprimente fatalismo, di repressione emotiva, di violenza endemica e autodistruttiva, la sessualità ansiogena, irrisolta e infine il realismo autodafé, la cinematografia granulosa e i viraggi forti, retaggio di quel cinema americano underground, low-budget e fieramente periferico, gli irripetibili anni di Karel Reisz, Tobi Hooper, Martin Scorsese, John Cassavetes, William Lustig…”

Qui, il confronto tra due piani medi al bancone di un bar rivela tre importanti dettagli. Il primo, una tensione latente pronta a esplodere in qualsiasi momento. Il secondo, una passione per i cromatismi accesi, con un colore in particolare – in questo caso, il rosso – che satura l’inquadratura fino a trascendere la semplice funzione descrittiva o simbolica, configurandosi piuttosto come un evento, denso e irriducibile nella sua pregnanza visuale. Terzo, che Harvey Keitel era in gran forma.