Poor Films – Riflessioni su “Povere creature”, femminismo al cinema e complessità

Bella Baxter (Emma Stone) si getta nel Tamigi perché il marito possessivo, il Generale Blessington, l’ha messa incinta. Viene ripescata dal dottor Godwin, un dio padre con il volto scarificato di Willem Dafoe, che la resuscita trapiantando il cervello del feto nel corpo della madre. Quindi viene promessa sposa allo studente di medicina Max McCandles, ma scappa di nuovo insieme al dongiovanni Duncan Wedderburn. Si emancipa anche da lui – leggendo – e finisce a prostituirsi in un bordello parigino gestito da Madame von Kurtzroc (Hanna Schygulla), dove un’altra prostituta, Toinette (Suzy Bemba), la introduce al socialismo e all’amore saffico. Torna a casa dove decide finalmente di sposare Max, anzi lo abbandona all’altare per tornare dall’ex marito Generale Blessington, gli spara, trapianta il suo cervello sul corpo di una capra e torna a casa, dove dio/Godwin è morto, e può finalmente vivere felice insieme a Max, Toinette e il Generale-capra.

Ribellarsi a God (dio), esplorare il proprio desiderio, sfidare le convenzioni sociali, emanciparsi attraverso la lettura, diventare socialisti, ammazzare il patriarcato e vivere felici e contenti in una piccola comune (poliamorosa?). Lanthimos ci mette due ore e mezza per comunicare, nel 2024, il messaggio che una donna deve essere libera. Se fossimo nel ’68 sarebbe sovversivo. Peccato invece che i bersagli sono già, culturalmente parlando, corpi freddi, morti da un pezzo: il padre-padrone Godwin, il macho-dongiovanni Wedderburn, il marito-padrone Blessington, così come la moralità che incarnano, sono già stati decostruiti, fatti a pezzi da cinquant’anni di critica culturale.

Repetita iuvant, per carità. Ma qui Lanthimos sembra involuto, rimasto indietro anche rispetto a lui stesso quando in Kynodontas, tuttora il suo film più bello insieme a The Lobster, partiva dalla stessa base – una famiglia patriarcale iper-tossica – per trarne, lì sì, traiettorie imprevedibili, urticanti. Povere creature ha l’aspetto innocuo e un po’ kitsch di una boule à neige, continuamente agitata da una bufera di gag, forse un souvenir di quel cinema che Lanthimos avrebbe voluto fare, rivoluzionario, liberatorio – il casting di Hanna Schygulla è una spia in questo senso: lei che lavorò con Fassbinder, Ferreri, icona di un film fieramente indipendente, incendiario, è un sigillo semiotico di garanzia autoriale per un film che ne ha estremo bisogno.

Fassbinder e Schygulla

Povere creature sembra al contrario un film in ostaggio: un po’ dell’esibizionismo del suo autore, un po’ delle strategie produttive disneyiane (Searchlight), un po’ dei desideri della sua protagonista. Tutto il film ruota intorno all’interpretazione istrionica ed esilarante di Emma Stone (bravissima), è incurvato anche registicamente intorno al buco nero della sua curiosità, lei che smania per conoscere il mondo e farlo suo, ma con un tale solipsismo che i luoghi del film, le situazioni del film, gli incontri del film, diventano tutti poco più che strumenti di una cronaca di un’emancipazione annunciata, e gli altri personaggi poco più che eunuchi a guardia del serraglio delle sue stravaganze.

È qui che Povere creature perde forza, diventa banale malgrado la sua visualità barocca gridi l’opposto, malgrado la carta sfolgorante con cui Lanthimos ha avvolto il récit, sotto il tunnel chiaroscurale dei fisheye e le scenografie fassbinderiane, ultraposticce: nel farsi apostolo di un femminismo totalmente, inderogabilmente condivisibile, mainstream, un femminismo “cattolico” nel senso greco di katholikos, “universale”, insomma da catechesi, che non pone interrogativi ma è pieno di belle risposte. Le stesse vibes di Star Wars – Episodio IX, siamo in pieno stile Disney, pane amore & dollari: pochi rischi e tanti incassi.

“E dov’è il problema?” mi chiedono. Nessun problema, per carità, ci vuole anche quello. Questione di gusto, preferisco film che vivono di interrogativi piuttosto che di slogan, che indagano la complessità invece di evitarla. La seconda domanda è allora “Ma perché un messaggio semplice ed efficace deve per forza essere un male, soprattutto se è un messaggio giusto?” La risposta che mi viene in mente è “Perché un film non è una pubblicità progresso”, ma poi capisco che è proprio lì il punto, la chiave del successo di Povere creature, il fatto di essere standard nella sua eccentricità, parzialmente scremato dalle ambiguità, altamente digeribile. Operazione pienamente in linea con lo spirito dei tempi, infatti arriva pochi mesi dopo Barbie, altro film divertente, votato a un femminismo militante che compie un immane sforzo di worldbuilding attraverso scenografie, costumi, colori, inquadrature, sopra una sceneggiatura più vicina alle esigenze della didattica che a quelle della narrazione.

Didattica e narrazione però sono agli antipodi: la prima deve essere chiara, semplice, efficace, costruttiva, mentre la seconda rende al meglio quando è oscura, ambigua, complessa, imprevedibile. Abituarsi troppo a usare la prima può compromettere l’efficacia della seconda, che pure ha incarnato, proprio a Hollywood, l’istanza gloriosa e urgente di un femminismo radicale, profondo, in confezioni audiovisive raffinate. Tre esempi.

Numero uno: in Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015), quasi tutti i personaggi sono ibridati con protesi tecnologiche, tutori, apparecchi respiratori, armi, che rappresentano la disconnessione con l’ambiente naturale devastato da una crisi ecologica irreversibile. Furiosa (Charlize Theron), la vera protagonista del film, viene mostrata senza protesi nei suoi momenti più vulnerabili, come se soltanto la capacità di rinunciare alla tecnologia conferisse finalmente un aspetto umano. Il villain del film, Immortan Joe, non ci riesce, muore nel momento in cui Furiosa gli strappa la maschera del respiratore in una sequenza che diventa lo smascheramento simbolico della disumanità del capitalismo e delle sue politiche di sfruttamento indiscriminato, celate sotto la maschera della religione, della retorica familiare, patriarcale, militare, o semplicemente dell’abitudine. Contro il patriarcato di Immortan Joe, fondato sulla violenza e l’accumulo, Furiosa non guida soltanto un autoarticolato imbottito di esplosivi ma anche un modello sociale alternativo ispirato a caratteristiche materne, femminili, di cura e condivisione. Sotto il ritmo martellante dell’action, Fury Road propugna la riconsiderazione del rapporto tra società e natura secondo un’etica femminista e matriarcale,auspicando la conversione dei patriarcati belligeranti (i vari Trump, Putin, l’orrido Iran) a matriarcati sostenibili. Un modello realizzabile soltanto tramite dialogo, cooperazione e uguaglianza – come dimostrano i due protagonisti, Max e Furiosa.

Numero due: lo ricordano in pochi, ma è un vero gioiello Una squillo per l’ispettore Klute (in inglese soltanto Klute, Alan J. Pakula, 1971), se non altro perché la “squillo” Bree Daniels (Jane Fonda) è uno dei personaggi femminili meglio scritti nella storia del cinema, tra i più complessi e stratificati, così come il rapporto di alti e bassi che stabilisce con il taciturno ispettore Klute, un Donald Sutherland dagli occhi acquosi, allampanato, passivo, paziente. Alti e bassi anche in senso registico: Bree cerca sempre di dominare l’inquadratura, di sovrastare le situazioni per avere maggiore controllo come negli incontri con i clienti, poi è abituata a “sballarsi” (to get high), e in un momento di crisi sale le scale che la portano al club del suo ex-magnaccia, la musica grida “lift me up my desire”, sollevami più in alto del mio desiderio, che è esattamente il problema di Bree, l’incapacità di affrontare le proprie emozioni e l’abitudine a usare la sessualità per allontanarsi dagli altri, invece di avvicinarsi; mentre Klute si posiziona sempre in basso, dorme sotto il letto di lei, sul pavimento, aspetta paziente che tutto ciò che è in alto torni a terra, come il cinese seduto sulla riva del fiume, aspetta che passi il cadavere del nemico e che la soluzione del caso gli cada tra le mani, in una lenta e inesorabile caduta. Tutta la regia di Pakula è orientata a questa tensione metaforica degli spazi, che colora il film di una complessità latente, non immediatamente percepibile ma operativa, anche quando nulla sembra accadere. In tutto questo, la progressiva emancipazione di Bree dal loop di droghe e prostituzione, la sua autodeterminazione come donna-soggetto invece che come donna-oggetto non potrebbe avvenire senza l’ascolto della psicologa e quello di Klute, perché la definizione di sé e della propria libertà si articola sempre attraverso il rapporto con l’altro.

Numero tre: in Alien (Ridley Scott, 1979) l’astronave concepita dal designer HR Giger è un involucro organico, un grembo tecnologico che protegge gli astronauti fluttuando in un vuoto cosmico buio e minaccioso. Lo Xenomorfo, parassita che cresce dentro ai corpi degli ospiti e li squarta dall’interno, ingaggia un duello all’ultimo sangue con Ripley (Sigourney Weaver), unica superstite dell’equipaggio. L’orrore della maternità, l’ansia per la penetrazione, l’abietto, la rivendicazione del corpo e della sua integrità, sono presenti e pulsanti nel testo cinematografico, che a distanza di mezzo secolo ispira ancora nuove riflessioni.

Ecco, per me la cosa più fastidiosa di Povere creature è questo suo modo furbo di allacciarsi alla genealogia del femminismo cinematografico succhiandone le icone, le atmosfere, senza mai rischiare, senza proporre nulla di originale. Nudi integrali, omicidi, esperimenti lugubri e distorsioni grottesche a guardar bene non sono che una corazza spinata, sotto la quale si nasconde la polpa tenera e sguiccia del politicamente corretto. Che non ha mai un gran sapore.

Lascia un commento