“Challengers” di L. Guadagnino

In breve: un film-cipolla, poco compreso in cui Guadagnino, autore poco compreso, si diverte a mettere strati su strati. Strati di tempo, di corpi, di desiderio, il tutto sotto a strati di immagini, immagini di gioventù, di bellezza, di divi e dive, di tennis. Fermarsi al primo strato si può, ma non è consigliato. Guadagnino è uno di quei registi che non si possono guardare con cinismo. Altrimenti si può ridurre anche il tennis al semplice gesto di mandare la palla di là dalla rete. E in fondo, è esattamente quello che è. No?

Triangolo

Sulle tribune Art e Patrick guardano Tashi, alla festa attirano il suo sguardo, nella loro camera d’albergo Tashi li attira uno verso l’altro e rimane a guardarli. “Challengers” è tutto racchiuso in questo triangolo mimetico di giovani che imparano a guardarsi, a desiderarsi, in questo movimento centripeto, spiraliforme, traiettoria che ruota intorno a sé stessa e rimbalza sulla terra rossa del desiderio prima di rimbalzare e rilanciarsi in un’altra spirale, la spirale esotica del tempo, che riavvolge gli anni e gli scontri in un gomitolo bergsoniano (e dunque proustiano) in cui passato e presente non si allontanano come il treno dalla stazione di partenza, ma si sovrappongono come legna alle braci, le braci di un desiderio sempre vivo, bruciante, lesto a riaccendersi.

Linea

Guadagnino accentua questo aspetto ever-pulsante, anacronistico del desiderio tramite la scomposizione della linea narrativa in un’ellissi che avvolge e comprime il passato, in una molla pronta a esplodere nello scontro finale, risolutivo, centro eccentrico della vicenda verso il quale tende tutto il film. Lo accentua anche tramite le violente coupure, elisioni di montaggio che disorientano, che tagliano la testa all’idra del desiderio solo per il gusto di vederlo raddoppiare. Idra, Ercole: la linea è anche quella greca, omerica, del muscolo dell’atleta, del gesto ripetuto, cesellato, della gioventù eroica, della grazia matematica di Policleto, delle geometrie eccentriche del tennis piegate alla forza del desiderio, della lotta tra apollineo e dionisiaco.

A e B

Art è l’apollineo. Biondo, taciturno, riflessivo, adulto anche da adolescente, l’uomo affidabile che si affida alle strutture: l’accademia, il circuito professionistico, la fondazione benefica, la famiglia. Patrick è il dionisiaco. Moro, spaccone, con quel ghigno da schiaffi, adolescente anche da adulto, dorme in macchina, spende tutto, evita ed erode le strutture, seduce e abbandona. L’uno più geometria, l’altro più genio. Eppure, scriveva Foster Wallace che prima di diventare un eccellente scrittore fu un ottimo tennista, ai margini del professionismo, il tennis è genio e geometria, regola ed eccezione tutto insieme. Apollineo e dionisiaco, in un’eterna ghirlanda brillante. Perché l’umano desiderio, come il tennis, ha bisogno di entrambi, perché è fatto di entrambi.

Rete

Questa sfida (challenge) tra amanti-rivali, doppi e diversi, tra Dioniso e Apollo, richiama un’infinita rete di riferimenti. Per dirla alla Julio Iglesias, c’è chi è pirata e chi è signore: Rhett e Ashley in “Via col vento”, Rick e Laszlo in “Casablanca”, Han Solo e Luke Skywalker in Star Wars, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman in “The Master”, più di tutti Marlon Brando e Jean-Pierre Leaud in “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, riferimento importante per Guadagnino. Là come qui era il corpo desiderato e desiderante di Maria Schneider il motore immobile del récit, qui è il corpo divino, divizzato di Zendaya a cominciare il gioco, già in quel primo appuntamento che in realtà non è mai finito, non finirà mai.

Game

Giocare, nella filosofia gadameriana (e non solo), implica che i giocatori perdono temporaneamente la propria soggettività per permettere al gioco di emergere in tutta la sua bellezza. Ancora Foster Wallace scrive che nel tennis l’avversario non è il nemico, “è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione”. Anche Tashi/Zendaya lo spiega, “il tennis è un gioco di relazione”, rete che trascende i limiti angusti di ambizioni e obiettivi dei singoli punti per creare qualcosa che vada oltre il desiderio stesso, quel campo estatico, inerentemente plurale, senza persona senza scopo, in cui il desiderio trova simultaneamente il suo compimento e il suo superamento. In questa relazione, in questo gioco, i tre personaggi finiscono per trascendere i limiti angusti di ciò che in via ordinaria si dà come relazione, come gioco. Lo stesso gioco che Guadagnino fa con lo spettatore, portandolo da un lato all’altro del campo filmico, dall’abbandono a soggettive languide che ispirano un’identificazione patemica, fino a oggettive irreali che esplorano il gioco da sotto il campo da tennis, dall’interno di una pallina, indizi di un sapere metadiscorsivo che richiede di identificarsi appunto con la “meta-realtà del gioco che avviene fuori dalla realtà ordinaria” (Huizinga), inseguendo un moto estatico, fuori da sé stessi, dentro il cerchio magico di quel grande gioco che è il cinema. Il cinema di Guadagnino.

Game, set, match.

★★★★☆

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