Killers of the Flower Moon – M. Scorsese

Anni ’20. Di ritorno dalla guerra, il veterano Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) fa visita allo zio, il ricco “King” William Hale (Robert De Niro), che insieme al nipote Byron (Scott Shepherd), fratello di Ernest, gestisce il potere a Osage County. In una Fairfax che ancora profuma di vecchio West, il mondo va al contrario: i nativi Osage sono ricchi, sotto le loro terre scorre il petrolio, mentre i bianchi lavorano come autisti, maggiordomi, barbieri, operai. King Hale lavora per rimettere un po’ di equilibrio nell’equazione favorendo matrimoni tra bianchi in miseria e ricche possidenti Osage, meglio se di salute cagionevole. Presto arriva il turno di Ernest, che si innamora di Mollie (Lily Gladstone), ricchissima ereditiera con madre anziana e varie sorelle che durano meno di una noce di burro in padella.

Il disegno è chiaro fin da subito: lo zio cospira nell’ombra, il nipote obbedisce senza riflettere. Sia De Niro che DiCaprio si consegnano alla parte con due interpretazioni impeccabili, ma il secondo brilla di più nei panni inediti del veterano, una figura ormai archetipica del cinema USA. Il veterano è un soggetto alienato, senza ruolo in una società che lo respinge, lo emargina, segnato da cicatrici invisibili e dolori senza nome che lo tormentano nel sonno e nella veglia. Ne sono esempi il Joaquin Phoenix di The Master, l’Oscar Isaac di The Card Counter, così come il De Niro di Taxi Driver e The Irishman rimanendo in ambito Scorsese. Sono palpabili anche le suggestioni andersoniane, in particolare There Will Be Blood. Ma più di tutti, questo Di Caprio ricorda il Frank Sheeran del penultimo Scorsese – la stessa espressione bovina, la stessa cieca obbedienza – ma istupidito a livelli coeniani, un personaggio che pare uscito da Fargo o Buster Scruggs.

Sopra, Scorsese; sotto, PTA.

Coerente con questo ultimo filone della sua filmografia, Scorsese come un Livingstone esplora le sorgenti del male, che nascono in quel territorio di confine dove l’assenza dello stato non significa assenza di potere, e ne fa colare un largo, sinuoso affresco in cui le vite degli Osage, persona dopo persona, goccia a goccia, in un lento e inesorabile stillicidio si perdono senza sussulti, senza far rumore, come acqua che si mescola alla terra. Insomma è anche questo un film di mafia, sul potere che si crea in assenza di potere, quando uno stato è colpevolmente assente, e sulla dinamica che trasforma la crudeltà e la violenza da eccezioni in regole, da anomalie ad abitudini, o come in una celebre formula di Hannah Arendt, sulla banalità del male.

Rispetto ad Irishman, tutto costruito secondo un gioco di tensioni, frizioni, accelerazioni, ambizioni che trascinava i protagonisti su equilibri fragili come il ghiaccio, sempre sul punto di essere incrinati o rovesciati, in KotFM Scorsese rimuove ogni attrito al corso dilagante del male. Ernest è una pedina completamente passiva, inconsapevole, privo degli scatti di orgoglio, la lealtà e la freddezza di Sheeran, è la banalità incarnata, non più un soldato ma uno sturmtruppen del male. Passiva è Mollie, che dopo un accenno di lotta si abbandona per tutto il film alle cure velenose di Ernest; passivi gli Osage, che non fanno nulla; passivo lo stato, che interviene troppo tardi; passiva persino la colonna sonora, che lontana dall’esuberanza di Irishman si abbandona al riff liquido di Robbie Robertson. Tutte scelte studiate e consapevoli. Ma la domanda è: funzionano?

Altra immagine andersoniana.

Qui vengono i problemi del film. L’estenuante passività che marca la narrazione si fa sentire in queste tre ore e ventisei minuti dove i moventi sono chiari fin dal principio e gli sviluppi si conoscono in anticipo; anche perché, se pure riuscissimo a distrarci, ci penserebbero i dialoghi a spiegare nel dettaglio tutto quello che è appena successo e che sta per succedere. La maggiore novità formale di KotFM è proprio questa ridondanza, atipica per Scorsese, espressa non solo a livello verbale ma in varie sequenze che vìolano i più sacri princìpi della narrazione, dal principio di economia (less is more) al proverbiale show, don’t tell. Ad esempio il didascalico voice over di Mollie al matrimonio (bastavano le immagini), o la ricostruzione dell’omicidio di Anna, sia verbale che inscenata.

Per carità, è anche così che si firmano i capolavori: Rashomon di Kurosawa è costruito proprio sulla ripetizione dello stesso episodio secondo varie prospettive e vari resoconti, e il senso di mistero è portato avanti proprio dagli scarti e dalle incongruenze. Qui però non abbiamo né gli uni né gli altri, abbiamo una cronaca di morti annunciate, una lentissima anti-epica dalla vocazione anti-spettacolare, materia da serie più che da crime drama. La carenza di sfalsamenti prospettici si evince anche dalla focalizzazione, affidata unilateralmente a tre visi pallidi che rappresentano comunque uno sguardo che non appartiene agli Osage: il massone De Niro, il derelitto Di Caprio, e il mellifluo (bravissimo) Jesse Plemons che da quando compare si prende sulle spalle la focalizzazione e la porta avanti in solitario. Anche questa una scelta, ma siamo sicuri che sia giusta?

In un regista solitamente così abile a tratteggiare indimenticabili personaggi secondari (il Keitel pappone di Taxi Driver, la Teri Garr gelataia di After Hours, il Rickles-direttore di sala in Casinò, lo Steve Graham “Tony Pro” di Irishman) grandi assenti di KotFM sono proprio i personaggi secondari, soprattutto gli Osage, ridotti a poco più che comparse, macchiette. Macchietta l’ubriacone malinconico Henry Roan, macchietta l’ubriacona sbaraccona Anna Kyle, comparse le altre sorelle di Mollie, i capi della comunità e l’investigatore nativo americano di cui manco sappiamo il nome. Forse si voleva inquadrare gli Osage con lo sguardo dei loro carnefici – corpi inutili, passivi, meri depositari di risorse da sfruttare, poco più che futuri assassinati in attesa di un assassino – suscitando una reazione attiva tramite la loro insistita e inverosimile passività. Qui però si rasenta l’assurdo quando Mollie, ormai a conoscenza delle trame che le hanno sterminato la famiglia e logorato il corpo, abbraccia il marito senza mostrare un cenno di reazione, di risentimento, di rabbia – niente.

Questo grande niente è al centro del film. I personaggi, DiCaprio compreso, sono costantemente agiti da trame più profonde, che li fanno sparire nel flusso indolente della diegesi. Spariscono le loro motivazioni, le loro ambizioni, le loro relazioni, rimane soltanto l’intreccio con i suoi mille fili, saldamente attaccati ai personaggi – e chiaramente visibili. A dispetto degli ottimi De Niro, DiCaprio e Plemons, dispiace soprattuto per il ruolo sacrificato di Lily Gladstone, che avrebbe avuto talento e spazio a sufficienza per brillare ed è invece ridotta al vetero-stereotipo della donna da salvare.

L’impressione è quella di un film che, per pudore e deferenza, si sia tenuto in qualche modo a distanza dalla storia che racconta. Lo indicano varie tracce sparse lungo il percorso: diverse inquadrature dall’alto, grandangolari; il meta-finale in cui il regista sale sul palco, mima un radio-show e ci racconta com’è andata; la cornice esotica che racchiude il film, aperto con un calumet della pace e concluso con una tipica danza circolare nell’ennesima inquadratura dall’alto, plongée.

Il titolo, Killers of the Flower Moon, si riferisce alla luna piena di maggio in Oklahoma, la “luna dei fiori” nel calendario Osage, perché coincide con la fioritura di piccoli boccioli stagionali che vengono presto soffocati da altre piante. Una chiara analogia alla strage silenziosa compiuta dai bianchi, ma possiamo anche interpretarla come la definitiva gemmazione di un nuovo approdo della filmografia scorsesiana, uno stile già percepibile in The Wolf of Wall Street e sviluppato nei (per me molto più convincenti) Silence e The Irishman. Insomma, ogni stagione dà il suo frutto. Non è detto che ci debba piacere.

★★★☆☆

The Irishman – M. Scorsese, 2019

the_irishman_-_publicity_still_-_h_2019_.jpg

Pacino in un ruolo alla Pacino, De Niro in un ruolo alla De Niro. Un film che è filmografia dentro la filmografia, rimando intra-testuale alla meta-testualità, arguta contraffazione (il de-aging) storica e storico-filmica.

Va bene, è il capitolo che chiude la tetralogia mafiosa, ma per come ritrae la provvisorietà della gloria e il cocente senso di sconfitta che il tempo inocula in ogni impresa umana, il primo accostamento che viene alla mente è “Toro scatenato”. “The Irishman” ripercorre l’infiltrazione della malavita nelle unioni sindacali americane, ma senza il tono concitato e rampante di “Mean Streets”, “Goodfellas” e “Casinò”.  Con passo calmo e inesorabile, Scorsese inscena una parata funebre in cui figurano tutti gli spettri del suo cinema, un epos testamentario che si chiude (anzi, si socchiude) su una porta aperta.

pesci

Ha interrotto il proprio ritiro dalle scene (1999) per recitare in “The Irishman” con De Niro e Pacino. Non è una gara, ma per me li batte entrambi. Interpretazione splendida, articolata, impeccabile, raggiunta per “sottrazione”.

Nemmeno in “L’ultima tentazione di Cristo” e “Silence” echeggiava così nitidamente il grido di Qohelet. Ma la vanità delle imprese umane non viene riscattata dalla resurrezione o da un pentimento tardivo (la telefonata). La realtà, l’unica realtà, è fatta di penombre felpate e lampade dimmerabili, di corpi pesanti sempre più fragili, di ricordi sempre più sbiaditi, di silenzi sempre più inutili. “The Irishman” è la storia che si specchia nel tempo, e riconosce la labilità del proprio riflesso.

★★★★★