

Non mi stupirei se George Lucas, dopo aver plasmato “Guerre Stellari” (1977) sulla trama de “La fortezza nascosta” (A. Kurosawa, 1958) e l’aspetto di Darth Vader sulle armature dei samurai, avesse attinto una volta di più al cinema giapponese per la costruzione psicologica del personaggio.
Parlo del protagonista di uno splendido jidaigeki di Kihachi Okamoto, “Dai-bosatsu Tōge 大菩薩峠” (1966) – letteralmente “Il passo montano del grande bodhisattva”, ma tradotto in occidente con titoli che suonano più o meno come “La spada del male”. Nella mitologia buddhista, il bodhisattva è una creatura illuminata che rinuncia alle vuote beatitudini della meditazione per tornare fra la gente, e aiutare ogni essere vivente nel suo percorso di liberazione dalla sofferenza. Il titolo originale sembra rilevante, se non altro perché il protagonista Ryunosuke – un magnifico Tatsuya Nakadai – sembra l’esatta inversione di un bodhisattva: samurai privo di compassione che gode nel dispensare morte e sofferenza, con un attaccamento mistico, quasi religioso alla sua spada.

Oltre la raffinata cinematografia che produce in serie soggetti da ukiyo-e, oltre il volto cereo di Nakadai, sorriso demoniaco e movenze da teatro Noh, Ryunosuke intriga per la sua modernità. Il cinema giapponese pullula di drammi in costume, morti violente, storie di samurai e vendette, ma nel 1966 è la prima volta che un film viene dominato da un’ombra, dall’incarnazione cristallina del nichilismo più disperato e distruttivo. L’uomo che “in tutto il mondo crede solo alla sua spada”, corrotto dalla purezza integralista del proprio invincibile talento, assomiglia a Vader sin dalle prime inquadrature: l’imponente presenza scenica, il volto coperto, il colore nero, le movenze risolute e meccaniche.

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