Oppenheimer – C. Nolan

Trinity, pochi secondi dopo la detonazione

La bomba è il vero Buddha occidentale: dispositivo distaccato, perfetto, sovrano. Immobile, riposa nei suoi silos, realtà pura e pura possibilità. Quintessenza delle energie cosmiche e della partecipazione umana a esse, prestazione suprema dell’uomo e sua distruttrice, trionfo di razionalità tecnica e suo superamento paranoetico.

P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica

In Oppenheimer la storia viene raccontata come fosse fantascienza. Non quella interstellare di Lucas e Star Trek, ma quella che rovescia la scienza nel suo lato oscuro. E cosa c’è di più oscuro della pulsione di morte, che l’umanità ha condensato nella bomba nucleare? L’ultima opera di Nolan suona cupa, come una profezia al contrario. La nube di Trinity assomiglia a quella purpurea di Matthew Shiel. Ma qui, più che dalle parti di Kubrick, siamo da quelle di Jules Verne: immagini visionarie e linguaggio sciatto.

Atto I

Il primo atto racconta per affastellamento più che concatenazione. Intorno al nucleo visuale del film, il volto allampanato e acquoso di Cillian Murphy, orbita un gran numero di frammenti biografici, incredibilmente significativi e incredibilmente brevi (apertura e rottura di relazioni sentimentali, professionali, periodi e decisioni cruciali).
Il montaggio forsennato dovrebbe compensare l’assenza di concatenazioni narrative e chiare finalità, tratti distintivi dello storytelling hollywoodiano. Ma la ridda convulsa di tempi, spazi, volti ed eventi più che a un viaggio nella fisica dei quanti assomiglia a una valigia fatta in fretta e furia nell’ansia di una partenza imminente, quando si ficca tutto dentro alla rinfusa per sospetto e timore che possa servire.
In tutto questo c’è un’overdose musicale, come se Nolan, conscio del mosaico frammentario e frenetico che ha costruito, volesse tenerlo insieme con una onnipresente pasta sonora. Che non basta ad arginare le derive naif, talvolta cringe – una scena su tutte, Florence Pugh a cavalcioni nuda su Cillian Murphy che gli fa tradurre il sanscrito.

Atto II

La parte più solida del film è quella più convincente. Sia dal punto di vista narrativo, con vari duelli che trainano il racconto (Murphy-Damon, Murphy-Blunt, Murphy-Pugh, Murphy-Safdie…); sia dal punto di vista estetico, con la costruzione visionaria di Los Alamos e Hoyte van Hoytema che finalmente esce dalle aule – di università, di tribunale – e compie il solito miracolo. L’ocra del deserto e il buio della notte lasciano il posto al bianco abbacinante della bomba. La nube esplode in cielo come un bianco orgasmo che partorisce la distruzione del mondo, mentre Oppenheimer dà sfogo alla propria fissazione scopica attraverso uno spioncino.
Come Semele, folgorata dalla bellezza bruciante del divino, Oppenheimer scorge il viso della morte e se ne innamora, dedicandole il sonetto di John Donne che dà il nome a Trinity:

“Sfascia il mio cuore, Dio in tre persone, per ora
tu solo bussi, sospiri, risplendi, e tenti di emendare.
Affinché io sorga e regga, tu rovesciami e tendi la tua forza
a spezzarmi, ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo”.

Atto III

Il terzo atto è un lungo downer. Un courtroom drama senza courtroom, perché non c’è processo, e senza drama, perché non coinvolge. I dialoghi sono prolissi, spuntati. I colpi di scena bussano timidi, come ospiti discreti, e per di più attesi. Dopo uno storyline che ha come oggetto principale la guerra e l’atomica, la trama ora gira intorno al mancato rinnovo di un permesso di sicurezza. E gira intorno a Strauss, figura troppo sbiadita per poter funzionare come antagonista solido.
Comincia, in un clima più retorico che storico, la sfilata dei cliché – il politico intrallazzone (Strauss), l’uomo di potere disumano (Truman), l’amico traditore (Teller), la moglie tradita ma inesorabilmente, inossidabilmente fedele (Kitty) che pronuncia nel finale la parola che aleggiava da almeno un’ora, la più adatta per comprendere di quale luce Nolan voglia illuminare il fisico newyorkese: “martire”.

ritrAtto

Come giustamente scrive Ippolito, “Nolan ha ironicamente osservato che, nonostante i tre film su Batman, Oppenheimer è di gran lunga il suo personaggio più ambiguo”. L’eredità storica di Oppenheimer è essa stessa ambigua, un’ambiguità che il film si sforza palesemente di risolvere malgrado si legga ovunque che il ritratto è equilibrato, che Nolan non ha voluto sbilanciarsi.
Non sono d’accordo.
Oppenheimer lasciò realmente una mela avvelenata sulla cattedra del suo supervisore, ma non tornò mai a toglierla come si vede nel film. A seguito di forti pressioni della famiglia, non venne espulso né incriminato, ma fu obbligato a seguire un percorso psichiatrico. Durante la guerra discusse con Fermi la possibilità di sconfiggere i tedeschi tramite un avvelenamento di massa. La rimozione o manipolazione di questi dettagli lo rende non solo meno interessante, ma anche più stereotipico nei panni del genio incompreso.
In più, Nolan lo incastona fra due icone novecentesche, Einstein che lo elegge come erede scientifico e Kennedy che ne risana definitivamente l’eredità politica. Lo accosta al martirio. A dispetto del mancato rinnovo del permesso di sicurezza e del clima politico sfavorevole, la parola “martirio” sembra inopportuna per un uomo che ha lavorato ad armi di distruzione di massa, influenzato per anni le decisioni militari, politiche, scientifiche di una superpotenza e diretto fino alla morte l’IAS di Princeton. Se fosse nato in Germania e avesse lavorato per Hitler, potremmo mai parlare di Oppenheimer come un martire?

prospAttiva

A meno che “martirio” non si intenda nel senso originale, etimologico, di testimonianza. Di che cosa? Del collasso dell’ideale di oggettività, che rende vano ogni tentativo di identificare verità e valori universali. Tanto nella scienza sempre meno sperimentale del cosmo quantico, quanto nella storia novecentesca, dove il profilo dell’eroe lascia fatalmente il posto all’umano, troppo umano Oppenheimer, agitato dalla spinta prometeica che contende agli dei le leggi che regolano la creazione del cosmo, e fatalmente la sua distruzione. Nolan ne fa un’icona del conflitto che agita la coscienza umana, un Prometeo incatenato ai propri dubbi, con l’aquila del rimorso occupata a rodergli il fegato.

Prometeo, l’uomo venuto a spogliare la natura dei suoi veli, a scandagliarne il corpo nudo con sguardo impudico, a dissezionarla per coglierne i segreti e condividerli. La parabola di Oppenheimer sancisce anche dal punto di vista simbolico l’avvento del mondo quantistico, un mondo in cui l’osservatore non è mai neutro ma sempre irrimediabilmente contaminato da un mondo che pare osservarlo di rimando. Lo sguardo non si dà più come finestra oggettiva. Lo sguardo è un ponte percorribile in entrambi i sensi e nel momento in cui Oppenheimer spacca l’atomo anche Oppenheimer sembra scindersi, frammentato in una serie di allucinazioni visive, uditive, cromatiche.

misfAtto

“Non è un caso”, scrive Berardini, “se in questi ultimi anni tre artisti di grande calibro (Lynch, McCarthy e appunto Nolan) hanno sentito il bisogno di confrontarsi con Trinity e la nascita del mondo atomico, rivelando in esso un punto di discontinuità sostanziale, uno scarto tanto sul piano politico che morale, fisico e metafisico.”
Il riferimento è al famigerato Episodio 8 di Twin Peaks 3, quando la detonazione di Trinity libera un coacervo di entità ectoplasmatiche. Falegnami dal viso bruciato terrorizzano il New Mexico ripetendo una strana litania; e un uovo si schiude, liberando un parassita insettoide che trova rifugio nella bocca di un’adolescente. Se TP3 fosse una Bibbia, episodio 8 sarebbe il racconto del peccato originale. La colpa che contamina irrimediabilmente, che si fa spazio tra le labbra degli innocenti e si annida nel loro stomaco, invisibile e incurabile come una malattia senza nome.
Questo in Twin Peaks. E Nolan?
Una sequenza mostra Oppenheimer che distoglie lo sguardo dagli orrori della bomba, proiettati in una sala cinema. La camera è fissa sulla reazione del protagonista. Non inquadra mai Hiroshima, Nagasaki, i cadaveri bruciati, i vivi avvelenati, mutilati, sterilizzati, scarciofati dalle radiazioni. Siamo lontani da Lynch. Pare quasi che il film stesso distolga lo sguardo davanti al bianco abbacinante della bomba, il bianco della colpa. Non vediamo mai l’effetto della bomba sui civili ma solo sulla coscienza di Oppenheimer. A questo sembra ridursi l’intero film, un discorso fatto dalla coscienza, per la coscienza, la coscienza di Oppenheimer e degli americani, forse dell’intero Occidente, una coscienza tormentata che chiede perdono, che però se lo concede da sé, senza mai relazionarsi con le vittime, parlando solo con sé stessa, facendo parlare le proprie contraddizioni – l’etica e la tecnica, l’impulso a conoscere e quello ad uccidere. Conclude Berardini inquadrando la domanda fondamentale, “Già The Prestige era la storia di inventori al limite dell’etica, ma ancor di più qui Nolan si impossessa delle forme del biopic scientifico complicandone il segno morale. Oppenheimer è carnefice o martire?” Peccato che il film, oltre a porre la domanda, pare volerci dare anche la risposta.

autoritrAtto

Grossolano come documento storico e farraginoso nei suoi aspetti finzionali, Oppenheimer invece funziona benissimo come autoritratto. Scrive Dario Denta, Nolan è un “grande tecnico con una propensione poco teorica” e cade spesso nella tentazione di ricorrere a spiegoni magniloquenti, se non puri deliri come la “quarta dimensione dell’amore” di Interstellar.
Facile presumere che si sia identificato con Oppenheimer, fisico poco portato alla teoresi e all’astrazione ma molto versato nell’ambito pratico, organizzativo. Analogamente, il miglior cinema di Nolan è un cinema prestigiatorio, che trova la sua ragion d’essere nella perfetta esecuzione tecnica del trucco.
Il pubblico, qualsiasi pubblico, aspira a essere ingannato, irretito dall’intreccio, illuso dai fantasmi che sfilano sullo schermo. Il trucco, qualsiasi trucco, perde d’incanto quando lo si spiega. Di incanto il suo cinema ne ha perso parecchio, da quando alle smancerie di Interstellar si sono aggiunti la retorica di Dunkirk, i garbugli di Tenet, le aule di Oppenheimer.
Lo ritroviamo intatto, l’incanto, nel segmento centrale. Quando regista e personaggio, uniti dall’ossessione scopica, contemplano il sole bianco di Trinity che cancella, insieme al profilmico, il mondo che c’era prima.

★★½☆☆☆

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