Indiana Jones e il quadrante del destino – J. Mangold

Nel recente Zeitgeist Nostalgia (John Hunt Publishing), il sociologo Alessandro Gandini riconosce la nostalgia come il sentimento del nostro tempo, rispetto a un’epoca – quella che va dal dopoguerra agli anni ’90 – segnata invece da entusiasmo e fiducia verso il neoliberismo americano, un modello che prometteva crescita e benessere a tempo indeterminato. A vedere Indiana Jones e il quadrante del destino (Indiana Jones and the Dial of Destiny – di qui in poi DoD) verrebbe da dargli retta.

Difatti, la trilogia originaria più che sul sentimento della nostalgia era costruita sulla fascinazione per l’esotico, luoghi e culture lontane nel tempo e nello spazio. La saga IJ fondeva la storia contemporanea insieme a ciclo arturiano, pensiero magico, stilemi western e mitologie assortite, per un risultato in molti aspetti analogo alla saga di Star Wars (che unisce ad esempio medicina cinese, archetipi della fiaba ed estetica giapponese). L’ossessione di Indiana Jones per custodire la storia (“Dovrebbe stare in un museo!”) tradisce soprattutto l’ossessione di volerla scrivere, un tratto inconfondibile della politica statunitense.

Le scorribande trionfalistiche dell’archeologo-avventuriero segnalavano allora, più ancora di un afflato nostalgico, una celebrazione del dominio e del pensiero americano, che da sempre accompagna al potere militare una irresistibile retorica libertaria. Il fascino di Indiana riflette i pregi del modello americano, un predominio sia muscolare che culturale. E i suoi viaggi in mezzo mondo per amore della storia rivelano che gli Usa sono innamorati soprattutto della storia che hanno scritto, e più in generale della loro abilità di scriverla. Non a caso i nemici storici, Reich e URSS, figurano in quattro episodi su cinque. Perlomeno, quelli sconfitti: Indiana Jones non è mai stato in Vietnam e Afghanistan…

Se la trilogia originale esprime quindi l’ansia che i meriti storici degli USA (leggi: vittoria sul nazifascismo e liberazione degli oppressi) non vengano riconosciuti, e dichiara fiducia incondizionata nel neoliberismo quale mezzo per preservare l’eredità storica e simbolica del dominio statunitense, questo ultimo capitolo si pone nel segno di una marcata discontinuità con tutti i predecessori. Non tanto per il racconto che sviluppa – Indy è sempre Indy – ma per le premesse implicite di questo racconto.

Idolo di gioventù: il sacerdote Mola Ram (Amrish Puri).

In DoD scopriamo che il matrimonio è fallito e la dinastia non sopravvive. Indy Jr. è morto in Vietnam – e non ne sentiremo la mancanza, visto che il personaggio di LaBoeuf aveva meno personalità del chiodo di pelle che indossava. Il film di Mangold presenta un tipico montaggio in continuità intensificata e una sceneggiatura solida, in cui il serrato concatenamento di azione/reazione lega personaggi ben scritti, classicamente hollywoodiani; spiccano la manigolda Phoebe Waller-Bridge, una sorta di Han Solo al femminile, e Mads Mikkelsen, come al solito impeccabile, che ci regala uno dei villain più indimenticabili di tutta la saga, dietro soltanto al sacerdote Mola Ram.

Proprio una battuta di Mikkelsen è la prima spia che qualcosa non va. Ex-nazista mai pentito, interroga in un hotel di NY un cameriere afroamericano:

Did you fight?

Yes, sir.

And, are you enjoying your victory?

La battuta coglie nel segno, il cameriere si ritira in silenzio. La vittoria contro il nazifascismo e il trionfo del modello liberista non hanno risolto le inuguaglianze, non tutti possono sognare il sogno americano. Un secondo indizio è una battuta di Waller-Bridge, “He steals, you steal from him, I steal from you – that’s capitalism!” Quando mai una battuta del genere poteva trovare cittadinanza nella trilogia originale? Lo stesso personaggio, battitrice d’asta nel mercato nero degli oggetti d’arte, esemplifica alla perfezione la critica di Deleuze-Guattari al capitalismo deterritorializzato che crea profitto e disuguaglianze attraverso la gestione di flussi di denaro senza origine né meta.

Non soffre solo il neoliberismo, ma anche il profilo degli USA quali salvatori del mondo e dei valori occidentali. Mikkelsen vuole tornare indietro nel tempo e modificare il corso degli eventi per favorire la vittoria del Reich nazista. Questa trama, nell’epoca dei media-mondo e della post-verità, tradisce l’ansia che la storia e la visione tradizionale della storia vengano manipolate. Una visione, quella pro-USA, che rischia di sgretolarsi sotto le molteplici pressioni di interessi e punti di vista divergenti in un mondo sempre più frammentato, depauperato di ogni collante ideologico.

Terzo e ultimo punto, DoD esprime anche sfiducia verso il progresso scientifico-tecnologico, altro sintomo (secondo Gandini) tipico della nostra epoca in quanto effetto della disillusione verso l’ideologia neoliberista. Nella trilogia originaria persisteva la fiducia verso un ideale umanista e sovrumano di giustizia, riportato di volta in volta sotto la bandiera di un sincretismo religioso-paranormale – Mosè, Shiva, il mito del Graal. Qui per la prima volta di paranormale non c’è nulla: tutto (pseudo)scientifico, da Archimede alla fisica dei quanti, con la differenza che il quadrante del destino è a tutti gli effetti una trappola, un corridoio temporale verso un tempo precario e pericoloso – come il nostro.

Un’ultimissima riflessione (polemica) la ispira il fatto che, se non si considera Il tempio maledetto, tutti i nemici di Indy avrebbero finito per battersi da soli anche senza il suo intervento – i nazisti bruciati dall’arca, avvelenati dal Graal, ingannati dal quadrante, e i sovietici polverizzati dagli alieni. Viene quasi il sospetto che valga anche per gli USA e i loro assidui e traumatici interventi, ma qui la riflessione critica sconfina in quella politica.

Inconsapevolmente, DoD è un funerale collettivo ai miti del merito storico, della prosperità neoliberista e del progresso. E quando muore un mito lo si celebra con la sfilata nostalgica delle sue contraddizioni: ecco allora che mentre la trilogia originale esprimeva una nostalgia puramente contemplativa, nel senso che i fatti e le icone della storia vi erano rappresentati con immaginifico e rispettoso fervore, qui si dà piuttosto una nostalgia restaurativa, ovvero carica di un impulso dedito alla ristrutturazione di forme e strutture in disfacimento.

L’asta in un malfamato cafè di Tangeri rimanda a Casablanca (M. Curtiz), Marion a sé stessa (Alla ricerca dell’arca perduta), l’orologio del padre a Sean Connery, Sallah a Sallah (L’ultima crociata), il bambino-guerriero a Shorty (Il tempio maledetto), in una tappa finale che sa di addio e nel contempo di riepilogo, riavvolgendo la saga intorno a sé stessa come per lucidarla, forse per proteggerla, come farebbe Indiana Jones con una delle sue statuette. Anche la saga di Indiana Jones ormai è storia e non resta che custodirla nostalgicamente, perché la nostalgia in fondo non è che questo: il museo dei nostri sentimenti.

★★★☆☆

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