Oppenheimer – C. Nolan

Trinity, pochi secondi dopo la detonazione

La bomba è il vero Buddha occidentale: dispositivo distaccato, perfetto, sovrano. Immobile, riposa nei suoi silos, realtà pura e pura possibilità. Quintessenza delle energie cosmiche e della partecipazione umana a esse, prestazione suprema dell’uomo e sua distruttrice, trionfo di razionalità tecnica e suo superamento paranoetico.

P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica

In Oppenheimer la storia viene raccontata come fosse fantascienza. Non quella interstellare di Lucas e Star Trek, ma quella che rovescia la scienza nel suo lato oscuro. E cosa c’è di più oscuro della pulsione di morte, che l’umanità ha condensato nella bomba nucleare? L’ultima opera di Nolan suona cupa, come una profezia al contrario. La nube di Trinity assomiglia a quella purpurea di Matthew Shiel. Ma qui, più che dalle parti di Kubrick, siamo da quelle di Jules Verne: immagini visionarie e linguaggio sciatto.

Atto I

Il primo atto racconta per affastellamento più che concatenazione. Intorno al nucleo visuale del film, il volto allampanato e acquoso di Cillian Murphy, orbita un gran numero di frammenti biografici, incredibilmente significativi e incredibilmente brevi (apertura e rottura di relazioni sentimentali, professionali, periodi e decisioni cruciali).
Il montaggio forsennato dovrebbe compensare l’assenza di concatenazioni narrative e chiare finalità, tratti distintivi dello storytelling hollywoodiano. Ma la ridda convulsa di tempi, spazi, volti ed eventi più che a un viaggio nella fisica dei quanti assomiglia a una valigia fatta in fretta e furia nell’ansia di una partenza imminente, quando si ficca tutto dentro alla rinfusa per sospetto e timore che possa servire.
In tutto questo c’è un’overdose musicale, come se Nolan, conscio del mosaico frammentario e frenetico che ha costruito, volesse tenerlo insieme con una onnipresente pasta sonora. Che non basta ad arginare le derive naif, talvolta cringe – una scena su tutte, Florence Pugh a cavalcioni nuda su Cillian Murphy che gli fa tradurre il sanscrito.

Atto II

La parte più solida del film è quella più convincente. Sia dal punto di vista narrativo, con vari duelli che trainano il racconto (Murphy-Damon, Murphy-Blunt, Murphy-Pugh, Murphy-Safdie…); sia dal punto di vista estetico, con la costruzione visionaria di Los Alamos e Hoyte van Hoytema che finalmente esce dalle aule – di università, di tribunale – e compie il solito miracolo. L’ocra del deserto e il buio della notte lasciano il posto al bianco abbacinante della bomba. La nube esplode in cielo come un bianco orgasmo che partorisce la distruzione del mondo, mentre Oppenheimer dà sfogo alla propria fissazione scopica attraverso uno spioncino.
Come Semele, folgorata dalla bellezza bruciante del divino, Oppenheimer scorge il viso della morte e se ne innamora, dedicandole il sonetto di John Donne che dà il nome a Trinity:

“Sfascia il mio cuore, Dio in tre persone, per ora
tu solo bussi, sospiri, risplendi, e tenti di emendare.
Affinché io sorga e regga, tu rovesciami e tendi la tua forza
a spezzarmi, ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo”.

Atto III

Il terzo atto è un lungo downer. Un courtroom drama senza courtroom, perché non c’è processo, e senza drama, perché non coinvolge. I dialoghi sono prolissi, spuntati. I colpi di scena bussano timidi, come ospiti discreti, e per di più attesi. Dopo uno storyline che ha come oggetto principale la guerra e l’atomica, la trama ora gira intorno al mancato rinnovo di un permesso di sicurezza. E gira intorno a Strauss, figura troppo sbiadita per poter funzionare come antagonista solido.
Comincia, in un clima più retorico che storico, la sfilata dei cliché – il politico intrallazzone (Strauss), l’uomo di potere disumano (Truman), l’amico traditore (Teller), la moglie tradita ma inesorabilmente, inossidabilmente fedele (Kitty) che pronuncia nel finale la parola che aleggiava da almeno un’ora, la più adatta per comprendere di quale luce Nolan voglia illuminare il fisico newyorkese: “martire”.

ritrAtto

Come giustamente scrive Ippolito, “Nolan ha ironicamente osservato che, nonostante i tre film su Batman, Oppenheimer è di gran lunga il suo personaggio più ambiguo”. L’eredità storica di Oppenheimer è essa stessa ambigua, un’ambiguità che il film si sforza palesemente di risolvere malgrado si legga ovunque che il ritratto è equilibrato, che Nolan non ha voluto sbilanciarsi.
Non sono d’accordo.
Oppenheimer lasciò realmente una mela avvelenata sulla cattedra del suo supervisore, ma non tornò mai a toglierla come si vede nel film. A seguito di forti pressioni della famiglia, non venne espulso né incriminato, ma fu obbligato a seguire un percorso psichiatrico. Durante la guerra discusse con Fermi la possibilità di sconfiggere i tedeschi tramite un avvelenamento di massa. La rimozione o manipolazione di questi dettagli lo rende non solo meno interessante, ma anche più stereotipico nei panni del genio incompreso.
In più, Nolan lo incastona fra due icone novecentesche, Einstein che lo elegge come erede scientifico e Kennedy che ne risana definitivamente l’eredità politica. Lo accosta al martirio. A dispetto del mancato rinnovo del permesso di sicurezza e del clima politico sfavorevole, la parola “martirio” sembra inopportuna per un uomo che ha lavorato ad armi di distruzione di massa, influenzato per anni le decisioni militari, politiche, scientifiche di una superpotenza e diretto fino alla morte l’IAS di Princeton. Se fosse nato in Germania e avesse lavorato per Hitler, potremmo mai parlare di Oppenheimer come un martire?

prospAttiva

A meno che “martirio” non si intenda nel senso originale, etimologico, di testimonianza. Di che cosa? Del collasso dell’ideale di oggettività, che rende vano ogni tentativo di identificare verità e valori universali. Tanto nella scienza sempre meno sperimentale del cosmo quantico, quanto nella storia novecentesca, dove il profilo dell’eroe lascia fatalmente il posto all’umano, troppo umano Oppenheimer, agitato dalla spinta prometeica che contende agli dei le leggi che regolano la creazione del cosmo, e fatalmente la sua distruzione. Nolan ne fa un’icona del conflitto che agita la coscienza umana, un Prometeo incatenato ai propri dubbi, con l’aquila del rimorso occupata a rodergli il fegato.

Prometeo, l’uomo venuto a spogliare la natura dei suoi veli, a scandagliarne il corpo nudo con sguardo impudico, a dissezionarla per coglierne i segreti e condividerli. La parabola di Oppenheimer sancisce anche dal punto di vista simbolico l’avvento del mondo quantistico, un mondo in cui l’osservatore non è mai neutro ma sempre irrimediabilmente contaminato da un mondo che pare osservarlo di rimando. Lo sguardo non si dà più come finestra oggettiva. Lo sguardo è un ponte percorribile in entrambi i sensi e nel momento in cui Oppenheimer spacca l’atomo anche Oppenheimer sembra scindersi, frammentato in una serie di allucinazioni visive, uditive, cromatiche.

misfAtto

“Non è un caso”, scrive Berardini, “se in questi ultimi anni tre artisti di grande calibro (Lynch, McCarthy e appunto Nolan) hanno sentito il bisogno di confrontarsi con Trinity e la nascita del mondo atomico, rivelando in esso un punto di discontinuità sostanziale, uno scarto tanto sul piano politico che morale, fisico e metafisico.”
Il riferimento è al famigerato Episodio 8 di Twin Peaks 3, quando la detonazione di Trinity libera un coacervo di entità ectoplasmatiche. Falegnami dal viso bruciato terrorizzano il New Mexico ripetendo una strana litania; e un uovo si schiude, liberando un parassita insettoide che trova rifugio nella bocca di un’adolescente. Se TP3 fosse una Bibbia, episodio 8 sarebbe il racconto del peccato originale. La colpa che contamina irrimediabilmente, che si fa spazio tra le labbra degli innocenti e si annida nel loro stomaco, invisibile e incurabile come una malattia senza nome.
Questo in Twin Peaks. E Nolan?
Una sequenza mostra Oppenheimer che distoglie lo sguardo dagli orrori della bomba, proiettati in una sala cinema. La camera è fissa sulla reazione del protagonista. Non inquadra mai Hiroshima, Nagasaki, i cadaveri bruciati, i vivi avvelenati, mutilati, sterilizzati, scarciofati dalle radiazioni. Siamo lontani da Lynch. Pare quasi che il film stesso distolga lo sguardo davanti al bianco abbacinante della bomba, il bianco della colpa. Non vediamo mai l’effetto della bomba sui civili ma solo sulla coscienza di Oppenheimer. A questo sembra ridursi l’intero film, un discorso fatto dalla coscienza, per la coscienza, la coscienza di Oppenheimer e degli americani, forse dell’intero Occidente, una coscienza tormentata che chiede perdono, che però se lo concede da sé, senza mai relazionarsi con le vittime, parlando solo con sé stessa, facendo parlare le proprie contraddizioni – l’etica e la tecnica, l’impulso a conoscere e quello ad uccidere. Conclude Berardini inquadrando la domanda fondamentale, “Già The Prestige era la storia di inventori al limite dell’etica, ma ancor di più qui Nolan si impossessa delle forme del biopic scientifico complicandone il segno morale. Oppenheimer è carnefice o martire?” Peccato che il film, oltre a porre la domanda, pare volerci dare anche la risposta.

autoritrAtto

Grossolano come documento storico e farraginoso nei suoi aspetti finzionali, Oppenheimer invece funziona benissimo come autoritratto. Scrive Dario Denta, Nolan è un “grande tecnico con una propensione poco teorica” e cade spesso nella tentazione di ricorrere a spiegoni magniloquenti, se non puri deliri come la “quarta dimensione dell’amore” di Interstellar.
Facile presumere che si sia identificato con Oppenheimer, fisico poco portato alla teoresi e all’astrazione ma molto versato nell’ambito pratico, organizzativo. Analogamente, il miglior cinema di Nolan è un cinema prestigiatorio, che trova la sua ragion d’essere nella perfetta esecuzione tecnica del trucco.
Il pubblico, qualsiasi pubblico, aspira a essere ingannato, irretito dall’intreccio, illuso dai fantasmi che sfilano sullo schermo. Il trucco, qualsiasi trucco, perde d’incanto quando lo si spiega. Di incanto il suo cinema ne ha perso parecchio, da quando alle smancerie di Interstellar si sono aggiunti la retorica di Dunkirk, i garbugli di Tenet, le aule di Oppenheimer.
Lo ritroviamo intatto, l’incanto, nel segmento centrale. Quando regista e personaggio, uniti dall’ossessione scopica, contemplano il sole bianco di Trinity che cancella, insieme al profilmico, il mondo che c’era prima.

★★½☆☆☆

Indiana Jones e il quadrante del destino – J. Mangold

Nel recente Zeitgeist Nostalgia (John Hunt Publishing), il sociologo Alessandro Gandini riconosce la nostalgia come il sentimento del nostro tempo, rispetto a un’epoca – quella che va dal dopoguerra agli anni ’90 – segnata invece da entusiasmo e fiducia verso il neoliberismo americano, un modello che prometteva crescita e benessere a tempo indeterminato. A vedere Indiana Jones e il quadrante del destino (Indiana Jones and the Dial of Destiny – di qui in poi DoD) verrebbe da dargli retta.

Difatti, la trilogia originaria più che sul sentimento della nostalgia era costruita sulla fascinazione per l’esotico, luoghi e culture lontane nel tempo e nello spazio. La saga IJ fondeva la storia contemporanea insieme a ciclo arturiano, pensiero magico, stilemi western e mitologie assortite, per un risultato in molti aspetti analogo alla saga di Star Wars (che unisce ad esempio medicina cinese, archetipi della fiaba ed estetica giapponese). L’ossessione di Indiana Jones per custodire la storia (“Dovrebbe stare in un museo!”) tradisce soprattutto l’ossessione di volerla scrivere, un tratto inconfondibile della politica statunitense.

Le scorribande trionfalistiche dell’archeologo-avventuriero segnalavano allora, più ancora di un afflato nostalgico, una celebrazione del dominio e del pensiero americano, che da sempre accompagna al potere militare una irresistibile retorica libertaria. Il fascino di Indiana riflette i pregi del modello americano, un predominio sia muscolare che culturale. E i suoi viaggi in mezzo mondo per amore della storia rivelano che gli Usa sono innamorati soprattutto della storia che hanno scritto, e più in generale della loro abilità di scriverla. Non a caso i nemici storici, Reich e URSS, figurano in quattro episodi su cinque. Perlomeno, quelli sconfitti: Indiana Jones non è mai stato in Vietnam e Afghanistan…

Se la trilogia originale esprime quindi l’ansia che i meriti storici degli USA (leggi: vittoria sul nazifascismo e liberazione degli oppressi) non vengano riconosciuti, e dichiara fiducia incondizionata nel neoliberismo quale mezzo per preservare l’eredità storica e simbolica del dominio statunitense, questo ultimo capitolo si pone nel segno di una marcata discontinuità con tutti i predecessori. Non tanto per il racconto che sviluppa – Indy è sempre Indy – ma per le premesse implicite di questo racconto.

Idolo di gioventù: il sacerdote Mola Ram (Amrish Puri).

In DoD scopriamo che il matrimonio è fallito e la dinastia non sopravvive. Indy Jr. è morto in Vietnam – e non ne sentiremo la mancanza, visto che il personaggio di LaBoeuf aveva meno personalità del chiodo di pelle che indossava. Il film di Mangold presenta un tipico montaggio in continuità intensificata e una sceneggiatura solida, in cui il serrato concatenamento di azione/reazione lega personaggi ben scritti, classicamente hollywoodiani; spiccano la manigolda Phoebe Waller-Bridge, una sorta di Han Solo al femminile, e Mads Mikkelsen, come al solito impeccabile, che ci regala uno dei villain più indimenticabili di tutta la saga, dietro soltanto al sacerdote Mola Ram.

Proprio una battuta di Mikkelsen è la prima spia che qualcosa non va. Ex-nazista mai pentito, interroga in un hotel di NY un cameriere afroamericano:

Did you fight?

Yes, sir.

And, are you enjoying your victory?

La battuta coglie nel segno, il cameriere si ritira in silenzio. La vittoria contro il nazifascismo e il trionfo del modello liberista non hanno risolto le inuguaglianze, non tutti possono sognare il sogno americano. Un secondo indizio è una battuta di Waller-Bridge, “He steals, you steal from him, I steal from you – that’s capitalism!” Quando mai una battuta del genere poteva trovare cittadinanza nella trilogia originale? Lo stesso personaggio, battitrice d’asta nel mercato nero degli oggetti d’arte, esemplifica alla perfezione la critica di Deleuze-Guattari al capitalismo deterritorializzato che crea profitto e disuguaglianze attraverso la gestione di flussi di denaro senza origine né meta.

Non soffre solo il neoliberismo, ma anche il profilo degli USA quali salvatori del mondo e dei valori occidentali. Mikkelsen vuole tornare indietro nel tempo e modificare il corso degli eventi per favorire la vittoria del Reich nazista. Questa trama, nell’epoca dei media-mondo e della post-verità, tradisce l’ansia che la storia e la visione tradizionale della storia vengano manipolate. Una visione, quella pro-USA, che rischia di sgretolarsi sotto le molteplici pressioni di interessi e punti di vista divergenti in un mondo sempre più frammentato, depauperato di ogni collante ideologico.

Terzo e ultimo punto, DoD esprime anche sfiducia verso il progresso scientifico-tecnologico, altro sintomo (secondo Gandini) tipico della nostra epoca in quanto effetto della disillusione verso l’ideologia neoliberista. Nella trilogia originaria persisteva la fiducia verso un ideale umanista e sovrumano di giustizia, riportato di volta in volta sotto la bandiera di un sincretismo religioso-paranormale – Mosè, Shiva, il mito del Graal. Qui per la prima volta di paranormale non c’è nulla: tutto (pseudo)scientifico, da Archimede alla fisica dei quanti, con la differenza che il quadrante del destino è a tutti gli effetti una trappola, un corridoio temporale verso un tempo precario e pericoloso – come il nostro.

Un’ultimissima riflessione (polemica) la ispira il fatto che, se non si considera Il tempio maledetto, tutti i nemici di Indy avrebbero finito per battersi da soli anche senza il suo intervento – i nazisti bruciati dall’arca, avvelenati dal Graal, ingannati dal quadrante, e i sovietici polverizzati dagli alieni. Viene quasi il sospetto che valga anche per gli USA e i loro assidui e traumatici interventi, ma qui la riflessione critica sconfina in quella politica.

Inconsapevolmente, DoD è un funerale collettivo ai miti del merito storico, della prosperità neoliberista e del progresso. E quando muore un mito lo si celebra con la sfilata nostalgica delle sue contraddizioni: ecco allora che mentre la trilogia originale esprimeva una nostalgia puramente contemplativa, nel senso che i fatti e le icone della storia vi erano rappresentati con immaginifico e rispettoso fervore, qui si dà piuttosto una nostalgia restaurativa, ovvero carica di un impulso dedito alla ristrutturazione di forme e strutture in disfacimento.

L’asta in un malfamato cafè di Tangeri rimanda a Casablanca (M. Curtiz), Marion a sé stessa (Alla ricerca dell’arca perduta), l’orologio del padre a Sean Connery, Sallah a Sallah (L’ultima crociata), il bambino-guerriero a Shorty (Il tempio maledetto), in una tappa finale che sa di addio e nel contempo di riepilogo, riavvolgendo la saga intorno a sé stessa come per lucidarla, forse per proteggerla, come farebbe Indiana Jones con una delle sue statuette. Anche la saga di Indiana Jones ormai è storia e non resta che custodirla nostalgicamente, perché la nostalgia in fondo non è che questo: il museo dei nostri sentimenti.

★★★☆☆

The Whale – D. Aronofsky

“Vorrei fare almeno una cosa buona in tutta la mia vita” grida Charlie fra le lacrime e ci sembra quasi di udire l’attore che lo interpreta, Brendan Fraser, la cui carriera dopo uno sfolgorante avvio è precipitata per problemi personali e molestie (subite).

Per questo ci si sente quasi in colpa ad accanirsi contro The Whale, ennesimo tassello di una filmografia, quella dell’ex-prodigio Darren Aronofsky, sempre più orientata verso un realismo tanto sfacciato e grossolano da configurarsi come una pornografia della miseria umana.

Qui la fonte è l’omonima pièce di Samuel Hunter, la meta-fonte il Moby Dick di Melville, libro triste perché “Achab pensa che la sua vita diventerà migliore se uccide la balena. Ma la balena non ha emozioni.” L’analogia, mica tanto sottile (di sottile c’è ben poco nel film), sovrappone la balena al protagonista obeso.

Tutti se la prendono con lui pensando che non abbia emozioni, eppure è un sensibile insegnante di lettere, con qualche colpa familiare sulle spalle, che non si riscatterà tramite la religione (Thomas), né l’amicizia (Liz), ma un drammatico sacrificio.

Lo stesso schema di The Wrestler, altro film che scrittura un attore decaduto in cerca di riscatto (Mickey Rourke). La dimensione metatestuale è insomma viva e vivace, e pungola lo spettatore sull’introspezione come esercizio maieutico (“scrivete cose vere!”) e sul senso di disgusto spontaneo verso la (?) grassofobia.

Ma tutto in The Whale è ripetitivo, angusto, morboso e schematico. Come la mente di Achab e la sua ossessione; come la stanza in cui vive Charlie, che ricorda la cambusa di una nave; come ormai la filmografia di Aronofksy, una via crucis di altrettanti Cristi inchiodati ai propri fallimenti ed esibiti con un piagnucoloso quanto inutile compiacimento.

★½☆☆☆

Indigesto

Benedetta – P. Verhoeven

Milleseicento e rotti, convento di Pescia. Le monache sono convinte che suor Benedetta veda davvero Gesù. Quando trovano una madonna a forma di dildo cambiano idea. Il Vaticano indaga. E s’incazza.

Classic Verhoeven: violenza grafica ed escursioni nel camp, compreso un Gesù con vagina (e perché no, visto che la madonna diventa un pene?). Gender fluidity e repressione sessuale, ma il focus è la critica della religione in quanto discorso immaginario che materializza dinamiche di potere concrete.

Verhoeven riprende i suoi Il quarto uomo e Flesh+Blood, ma anche I diavoli (Ken Russell) e Gostanza da Libbiano (Paolo Benvenuti). Più della protagonista Virginie Efira, brilla la santa Trinità di Daphne Patakia (Kynodontas), Lambert Wilson (il Merovingio di Matrix) e un’esoterica Charlotte Rampling.

Dissacrante

★★★½☆☆

Decision to Leave – P. Chan-wook

Uomo muore in strane circostanze, detective indaga la vedova, non è stata lei. La vedova si risposa, il marito ri-muore, il detective ri-indaga. Forse era stata lei. Mistery romance hitchcockiano tra un’immigrata cinese e un poliziotto coreano caduti in una spirale di passione e violenza.

Il paesaggio è più di un semplice sfondo, giocato su un’estetica (shanshui 山水), in cinese “paesaggio”, in senso letterale “monti 山e acque 水”; ma anche lui e lei, maschile e femminile, senso di colpa e desiderio, fermezza morale e ondate di passione.

Svariati virtuosismi in sede di regia, fra soggettive ansiogene e primi piani catturati attraverso lo schermo del telefono.

Vertiginoso

★★★½☆☆

Babylon – D. Chazelle

“Mai visto un tale vortice di cattivo gusto e pura magia”. La recensione Chazelle se la fa da solo, affidandola a una battuta di Margot Robbie, ed è anche abbastanza centrata.

Sequenze di grande cinema la festa in apertura, le riprese del kolossal medievale, la discesa nei budelli losangelini con un Tobey Maguire repellente. Il cattivo gusto invece non sta solo nell’umorismo scatologico – elefanti che svuotano le viscere sui galoppini, attrici che urinano, si ingozzano, vomitano – quanto nel perseguimento consapevole di una “poetica dell’eccesso e dell’incontinenza” (Gandini, Cineforum) che si estende a una ricostruzione patinata e platealmente fasulla, disinteressata al recupero realistico di arredi, acconciature, scenografie…

Insomma un postmoderno al quadrato, che in vari punti si esprime con il linguaggio frammentario e accelerato dei videoclip. Chazelle, di formazione musicista, ama far trainare il racconto dalla colonna sonora, innescando l’azione in J-cut e tenendola viva e vibrante attraverso un montaggio sincopato che raggiunge il suo acme nel pirotecnico finale, un’esibizione (auto)compiaciuta di estro compositivo e cultura cinefila.

Sopra Caligola, sotto Babylon

Questa cultura cinefila, oltre alla fonte d’ispirazione Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, saccheggia tanti, troppi film per elencarli tutti, ma vale la pena menzionarne alcuni: i personaggi di C’era una volta a Hollywood (Tarantino), le scenografie di Caligola (Brass) e I vitelloni (Fellini), le tracking shots di Paul Thomas Anderson, i piani sequenza di Quei bravi ragazzi (Scorsese) e le icone di Singin’ in the Rain (Kelly-Donen), innestandosi in quel filone epico dedicato agli anni d’oro di Hollywood ormai piuttosto nutrito, anche se non esattamente popolare (vedi alla voce Incassi), che solo negli ultimi anni ha visto The Fabelmans (Spielberg), Mank (Fincher), il succitato Tarantino, Blonde (Dominik)…

Funziona? Dipende da quanto si è disposti a scendere a patti con questa regia fracassona e ammiccante, con questo Chazelle che davvero (osserva Menarini) “non si capisce se ci fa ci è”. Qualunque cosa sia Chazelle c’è da sperare che continui a esserlo ancora per un po’, perché questa clamorosa, glamourosa commistione di kolossal e commedia malgrado tutto lascia un segno.

★★★½☆☆

Godland – H. Palmason

Quasi 1900. A un prete danese con la passione per la fotografia viene assegnata una parrocchia in Islanda. Parte controvoglia per un viaggio periglioso in cui l’amico interprete incontra una morte tragica. E forse è il più fortunato dei due.

In Godland la questione fotografica non è al centro, è letteralmente da tutte le parti, a partire dalla bizzarra scelta di formato 1.33: 1 che ricorda i dagherrotipi di fine Ottocento, poi la scelta di girare in pellicola 35mm e la potente cinematografia di von Hausswolff che ritrae un’Islanda bella e terribile, incompleta come l’Amazzonia di Aguirre (Herzog), una terra in cui pare che il Creatore debba tornare un giorno per finire la creazione.

E come in Herzog, al cuore dell’opera pulsa la lotta impari tra uomo e natura. E ancora la critica postcoloniale che si articola nel rapporto gerarchico tra islandese, lingua natia/naturale, e danese, lingua colonizzante/civile. E ancora una satira intrisa di humor nero alla Lanthimos che graffia l’ipocrisia dei costumi, soprattutto religiosi.

Insomma un film con tre o quattro cuori, come un calamaro, ma altrettanto sguiscio, privo di spina dorsale, che annida in ogni genere senza abitarne nessuno, gettando fumo, anzi inchiostro, in faccia allo spettatore per almeno 40 minuti più del necessario. E come tanti calamari finisce, a dispetto della sua innegabile intelligenza e ammaliante mostruosità, arrostito.

★★½☆☆☆

Un bel mattino – M. Hansen-Love

Traduttrice vedova con figlioletta a carico cerca ricovero per accudire il padre (anziano filosofo afflitto da malattia neurodegenerativa) e trova insperato nuovo amore (vecchio amico cosmo-chimico) che però è sposato.

In questa narrazione di stampo rohmeriano le tensioni sentimentali, familiari, sociali, intellettuali, si aprono come tante parentesi lasciate in sospeso, attraversate dall’espressività straordinaria di Léa Seydoux. Il sospetto è che senza di lei, il film avrebbe avuto ben poco da mostrare e ancor meno da dire: mentre il montaggio sminuzza il racconto in piccoli frammenti muti, Hansen-Love ci regala dialoghi indimenticabili come “Ti amo, ma è complicato” o “Signora Kingsler, abbiamo sentito tanto parlare di lei”.

Forse timorosa di non farsi capire, chiude con una bella cartolina finale da Montmartre che sarebbe perfetta anche per una pubblicità dei Panciok. Magari sarà pure stato “Un bel mattino”. “Un bel film” proprio no.

★☆☆☆☆

Vortex (G. Noé), Memoria (A. Weerasethakul)

I miei due film preferiti del 2022 sono, anche se in maniera diversa, due meditazioni sulla fragilità della vita umana. Il crudelissimo Vortex di Gaspar Noé (★★★★☆) si iscrive in una filmografia già pesantemente marcata dai segni della morte, della violenza, dell’orrore di esistere. Si pensi alla sequenza dello stupro in Irréversible e alle atmosfere onirico-brutali di Enter The Void, in cui esperienze extra-corporee e promiscuità sessuale si intrecciano in un autentico poema post-mortem dedicato alla condizione umana.

Noé è un cineasta fortemente legato al concetto di crudeltà (cruauté) così come la intendeva Artaud: non banalmente una rappresentazione della crudeltà, ma uno “spettacolo cifrato” destinato a manifestare ciò che nella vita stessa si dà come irrappresentabile – la sofferenza, la follia, il sogno, la malattia, la morte. Il luogo della messinscena, scrive Artaud, “è una specie di luogo unico, senza chiusure né barriere, che diverrà il teatro stesso dell’azione”, dove “una comunicazione diretta sarà stabilita tra lo spettatore e lo spettacolo, tra l’attore e lo spettatore”.

Da sempre Noé tende il linguaggio cinematografico alla sua estremizzazione, fino alla rottura del senso, all’afasia totale. Attraverso colore, montaggio, colonna sonora, movimenti di camera e strategie narrative, lancia un assalto sinestetico verso lo spettatore; la poetica di Noé sta al cinema come un gatto sta al suo sacco, dal quale cerca rabbiosamente e disperatamente una via di fuga. E in questa fuga – dai limiti convenzionali del linguaggio, verso una rappresentazione dell’irrappresentabile – trascina il pubblico in un luogo senza chiusure né barriere, luogo di una comunicazione privilegiata su ciò che per natura non si può comunicare e per questo, appunto, crudele.

Vortex, storia di una coppia di anziani che scivola lentamente verso la follia e la morte, è forse il film più umano di Noé, quello più intriso di una impassibile e palpabile pietas per i personaggi: lei (Françoise Lebrun), grandissima attrice d’antan e lui (Dario Argento), grande regista d’altri tempi (che non sa recitare). Coppia perfettamente complementare insomma, che Noé riprende attraverso uno split-screen sempre più marcato e profondo, come a sottolineare l’abisso incolmabile che la follia, la progressiva perdita dell’identità, scava a poco a poco nella quotidianità delle nostre case, delle nostre famiglie – e qui torna ancora Artaud a ribadirci che “Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. […] Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita, come qualsiasi avvenimento prodotto dalle circostanze. Con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita invece di separarcene”.

Più trasognato e meno crudele è Memoria di Apichatpong Weerasethakul (★★★★☆), ma non per questo meno efficace o meno bello. Jessica (Tilda Swinton), inglese che vive in Colombia, si desta di notte per un boato misterioso che somiglia “a una palla di cemento che cade in un pozzo di metallo dentro al mare”. Non si riaddormenterà più. Incontra personaggi, a volte reali e a volte immaginari: archeologi che ripuliscono ossa umane, fonici, pescatori che muoiono e resuscitano a piacimento, fino alla sorpresa conclusiva (che non posso dire), ennesima manifestazione della massima alterità, dopo la morte e il tempo.

Una meditazione potente sull’identità e il suo dissolvimento, realizzata a partire dalla prospettiva liminale del sogno e (anche qui) della malattia; stati di coscienza alterati che (come in Tropical Malady e Cemetery of Splendour) se non altro hanno il merito di disseppellire le tracce di quello che pare un disagio profondo, o forse è semplicemente il sordo dolore dell’esistenza che si ode più nitido quando si ha la pazienza di ascoltarlo.

Christine Gordon
Tilda Swinton

Splendida non-prova per Tilda Swinton, sottratta a sé stessa fino a diventare il proprio avatar. D’altronde la fonte di ispirazione dichiarata era Christine Gordon in I Walked with a Zombie di Jacques Tourneur, non-morta grazie a un rituale vudù. Anche Memoria è in un certo senso un cinema della sopravvivenza, Nachleben direbbe Aby Warburg: ovvero postumo a sé stesso, sottratto alla vita ma in questo modo sottratto anche al tempo, che della vita è il più vorace predatore. Consegnato invece alle immagini senza tempo di un cinema che non racconta, non ricorda, sopravvive a sé stesso come reperto di sé stesso, mera archeologia di un passato immaginario.

I migliori film del 2022

Vortex. Rimando alla recensione di Gangi/Chieppa per OC.

Francia e Argentina protagoniste, come ai mondiali. Apre e chiude la classifica l’Argentina, con il crudelissimo Vortex di Noé, chiude il leggero ma sfizioso Finale a sorpresa. Nel mezzo la sorpresa Saint Omer, recensito per Ondacinema. Ho scritto anche di Nope e Un eroe, gli altri li commenterò a breve.

Flop dell’anno il celebrato Crimes of the future di Cronenberg, che mi ricorda Il giuoco delle perle di vetro di Hesse: scritto con le intenzioni di realizzare un capolavoro, ed è semplicemente la summa di lavori precedenti (che erano migliori). Un lavoro un po’ pedante, un po’ scalcagnato, intelligente in ogni pagina (inquadratura) ma con vari difetti di scrittura e coesione che ne minano il valore.

Classifica:

Red Rocket. Molti l’hanno trovato sottotono, per me è la commedia dell’anno.

1.Vortex (Gaspar Noé)

2.Memoria (Apichatpong Weerasethakul)

3.Licorice pizza (Paul Thomas Anderson)

4.Nope (Jordan Peele)

5.Saint Omer (Alice Diop)

6.Red Rocket (Sean Baker)

7.Esterno notte (Marco Bellocchio)

8.The Fabelmans (Steven Spielberg)

9.Un eroe (Asgar Fahradi)

10.Finale a sorpresa (Gastón Duprat, Mariano Cohn)

Top di categoria:

Van Hoytema non delude in Nope.

Miglior regia…Gaspar Noé (Vortex)

Miglior attore…Simon Rex (Red Rocket)         

Miglior attrice…Tilda Swinton (Memoria)

Miglior sceneggiatura…Alice Diop, Amrita David, Marie NDiaye (Saint Omer)

Miglior colonna sonora…Jonny Greenwood (Licorice Pizza)

Miglior fotografia…Hoyte van Hoytema (Nope)

Miglior montaggio…Sean Baker (Red Rocket)

Miglior opera prima…Laura Samani (Piccolo corpo)

Rivelazione dell’anno…Alana haim (Licorice Pizza)/Gabriel la Belle (The Fabelmans)

Miglior uso del colore…Claire Mathon (Saint Omer)