Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).
Winding Refn affida alla mobilitazione patemica del colore l’espressione dell’inesprimibile, di ciò che la stessa psiche di Harry, penetrata da scanditi primi piani sulla nuca di Turturro, non è in grado di articolare in maniera discorsiva ma solo metaforica, metonimica. Mentre il fade to black è una momentanea palingenesi, la sincronia che chiude e apre un ciclo temporale, il fade to red, molto utilizzato anche in Bleeder, assegna all’efflorescenza cromatica un portato di senso.
Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).
Sotto, Fear X. Sopra, Twin Peaks: Fuoco, cammina con me.
In Fear X, l’influenza di Lynch traspare nella dovizia di velluti, paralumi, abbattiluce, in quella stessa algida frontiera montana che è l’ambientazione dominante di Twin Peaks (1990-1; 2017). Due registi appassionati dall’archetipo del doppio, pionieri nell’esplorazione del confine sottile e impercettibile che separa due mondi, due dimensioni complementari del tempo e dell’esistere.
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Per Fear X, Brian Eno non ha composto una colonna sonora ma piuttosto una maceria sonora; non melodie ma ronzii, disturbanze, dissonanze, brusii, rintocchi sintetici che risuonano in una soundscape frastornata da una tempesta di interferenze, a mimare su piano visuale i fiocchi di neve o i fiocchi di pixel che disturbano l’immagine. Un’estetica che insiste sulla concordanza paranoide tra i vari “effetti speciali” del linguaggio cinematografico, la cui sigla in inglese è proprio “FX.”
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John Turturro in Fear X, immerso in un amniotico filtro rosso.
Il feticcio dell’immagine, del riflesso, della fotografia, del VHS (supporto significativamente già obsoleto nel 2003, anno di uscita del film), opera come un cancello sbarrato verso l’implicita domanda di apertura verso il mondo.
La configurazione narrativa di Fear X corrisponde esattamente al delirio psicotico: “c’è chi resta incatenato tutta la vita alla magia seduttiva dello specchio, c’è chi non esce più dal suo regno incantato e malefico. Questo imprigionamento può oscillare dal normale narcisismo sino alla paranoia” (Recalcati 2018, 21).
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Le cromie nere e rosse, le persistenti e speculari simmetrie, alludono a una dimensione onirica in cui la coscienza si specchia nelle proprie illusioni.
Fear X (2003): Harry sviluppa una relazione feticista con i simulacri catturati dalle telecamere di sorveglianza, nel tentativo di risolvere un caso di omicidio che probabilmente ha compiuto lui stesso.
A indicarlo sono vari elementi, come il movente suggerito dai poliziotti (un tradimento) e il footage nei titoli di coda in cui l’omicidio, compiuto nei pressi del centro commerciale, avviene in circostanze diverse rispetto a quelle mostrate durante il racconto.
Così si spiega anche l’eccentrico finale, in cui i poliziotti scortano Cain all’aperto e lo osservano fare a brandelli le fotografie. A disgregarsi non sono soltanto le immagini, ma soprattutto il riflesso narcisista con cui Cain ha offuscato la coscienza del proprio crimine.
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Lo spettatore, come il protagonista, deve interrogare i frames in un estenuante processo di estrapolazione e interpretazione, compresi i titoli di coda.
Fear X tende al recupero, sulla scia di una tradizione inaugurata da Michelangelo Antonioni (Blow-Up, 1966), di una registrazione della realtà intesa non meramente come atto di neutra archiviazione dei fatti, ma piuttosto, in una prospettiva nietzschiana e postmoderna, come processo inevitabilmente demiurgico di creazione e manipolazione della realtà. Emulando in particolare Strade perdute (David Lynch, 1997), il delirio orfico del protagonista disassembla la realtà, ricostruendola in un alfabeto simbolico governato da regole di sostituzione metaforiche e metonimiche.
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Il film si apre con uno sguardo che s’infila tra una cortina di tende rosse, anticipando alcuni dei motivi ricorrenti: il voyeurismo, l’occultamento, il colore rosso, la simmetria.
Con un tono compassato e contemplativo che si distanzia dai film precedenti, Fear X racconta le indagini di una guardia giurata paranoica, Harry Cain (John Turturro), in cerca dell’omicida della moglie. Harry non si limita a piangerla: intraprende a partire dalle immagini, attraverso le immagini, una quête impossibile alla ricerca della moglie, come se il brusio indistinguibile dei simulacri (in inglese l’anagramma “ear f-x” suona come “ear effects”) potesse in qualche modo riportare in vita Claire, come la melodia orfica che riportò alla vita Euridice.
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Sopra, Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein. Sotto, Bleeder.
In Bleeder, Leo viene incatenato e appeso da Louis in un magazzino abbandonato (sentito omaggio a Tobe Hooper, Non aprite quella porta, 1974), gli viene iniettato del sangue sieropositivo, quindi viene liberato. Come insegna la parabola di Euridice, chi viene rubato alla morte non può che ritornarvi: il rapporto tra Louis e Leoricalca quello tra Frankenstein e la Creatura ne Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein. Attraverso il sangue sieropositivo Louis forgia un nuovo Leo, infetto e condannato, ormai privo di interessi personali, che agisce nell’interesse della comunità: l’eliminazione di Louis, gangster violento e incestuoso, che trasgredisce le leggi della civiltà e della natura. Louis finisce come il barone Frankenstein (Udo Kier), morto per avere ingannato la morte e per mano della sua Creatura, che ha per madre la morte e per padre il barone.
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Sopra, The Gambler. Sotto, Bleeder.
È difficile non sovrapporre la parabola di Pusher a un altro spettacolare personaggio del cinema anni ’70, il James Caan protagonista di The Gambler (in italiano, 40,000 dollari per non morire, tra i tanti scempi perpetrati da titolisti e montatori italiani in quegli anni, Karel Reisz, 1974). Caan interpreta Axel Freed, un professore universitario di letteratura inglese affetto dal vizio del gioco. Come Frank, Axel si sottomette a una legge più ferrea e profonda della razionalità, quel circuito (ancora una volta una dimensione ciclica, incarcerante) ormonale di dopamina, adrenalina e serotonina che accompagna il gioco d’azzardo.
L’epilogo è comune a entrambi i film, un inquietante primo piano. L’uno grondante sangue davanti allo specchio, narcisisticamente orgoglioso della traccia che gli solca il volto. L’altro catturato da una carrellata circolare, asfissiato dalla luce cruda e giallastra dei neon. Due primi piani che testimoniano l’implacabile discesa di un uomo trascinato dalle pulsioni.
Estratti e riferimenti dal mio prossimo volume (in uscita per Falsopiano nel 2022).
Una poetica che gioca sul fato, gioca sulla violenza e gioca anche sulla vertigine, ciò che in Eschilo sarebbe dine – rotazione, ciclo, spirale, gorgo, mulinello, vertigine. Innanzitutto come senso di accerchiamento, dalla combinazione di una handicam balzellante e un labirinto di anditi angusti, dominati da viraggi contrastivi.